Rompere i muri: Venerdì Santo 2020

Miei Cari,
c’è un racconto dell’ebreo Franz Kafka che assume un significato nuovo, se ascoltato il Venerdì Santo. È intitolato “Un messaggio imperiale”.

1.

Parla di un re che, sul letto di morte, chiama accanto a sé un suddito e gli sussurra all’orecchio un messaggio. È tanto importante quel messaggio che se lo fa ripetere, a sua volta, all’orecchio. Quindi congeda con un cenno il messaggero che si mette in cammino. Ascoltiamone il seguito direttamente dall’autore, contraddistinto da un clima onirico e che anche a noi è dato talvolta provare quando facciamo un brutto sogno che si trasforma in incubo. «Avanzando ora un braccio, ora l’altro, il messaggero si apre la strada attraverso la folla e avanza leggero come nessuno. Ma la folla è immensa, le sue dimore sterminate. Come volerebbe, se avesse via libera! Invece, si affatica invano; ancora continua ad affannarsi attraverso le stanze del palazzo interno, dalle quali non uscirà mai. E se anche questo gli riuscisse, non significherebbe nulla: dovrebbe lottare per scendere le scale. E se anche questo gli riuscisse, non avrebbe fatto ancora nulla: dovrebbe traversare i cortili; e dopo i cortili, la seconda cerchia dei palazzi. Gli riuscisse di precipitarsi, finalmente, fuori dall’ultima porta – ma questo non potrà mai, mai accadere – ecco dinanzi a lui la città imperiale, il centro del mondo, ove sono ammucchiate montagne dei suoi detriti. Lì in mezzo, nessuno riesce ad avanzare, neppure con il messaggio di un morto. Tu, intanto, siedi alla tua finestra e sogni di quel messaggio, quando viene la sera» (F. Kafka, Un messaggio imperiale, in Racconti, Milano 1972, pp. 146 e segg.).
Credo che Kafka abbia reso bene l’idea mediante la storia della difficoltà che si frappongono tra noi e noi stessi, tra noi e gli altri, tra noi e il mondo che ci circonda, tra noi e Dio. C’è sempre qualcosa che si mette in mezzo e di traverso: la folla immensa, le dimore sterminate, le stanze numerose, le scale interminabili, i cortili numerosi, e poi ancora palazzi … ma più che tutti questi ostacoli, che alla fine di un interminabile percorso possono ancora essere superati, ce ne sono due impossibili: il messaggio da portare è quello di un morto e la città imperiale a cui portarlo è distrutta, piena di macerie, dove, ironia della sorte, tutto è morte e silenzio. L’unica possibilità che si sembra palesarsi allo spettatore che vede la fatica del messaggero è quello di stare alla propria finestra e sognare, alla sera. Ma neanche questa possibilità appare realistica: i sogni, se non hanno le gambe, restano tali; non si compiono, per quanto belli siano! Perché ormai è sera e il giorno è passato…Ed è ancora tutto un’illusione tragica. Né l’una né l’altra sono vie percorribili. Usciamo fuori dalla metafora di questo racconto kafchiano.

2.

Quante volte anche noi rischiamo di cadere in questi pericoli di fronte al nostro presente. O ci figuriamo cose che non ci sono e ci crogioliamo in esse, quasi a giustificarci della nostra immobilità. O sogniamo troppo in grande, con lo stesso pericolo: restare fermi al sogno e non realizzarlo, perché, appunto è solo un sogno sospeso nell’aria, senza concretezza alcuna… e la sera della vita arriva in un battibaleno! Non vi sembra che tutto questo incedere per ostacoli sia simile al tempo che stiamo vivendo in questa clausura forzata? Non vi sembra che tutti queste ostruzioni assomiglino un po’ e per certi versi esistenza che stiamo conducendo? Frettolosa, sfrenata, smodata, colma il più delle volte di vuote libertà che si infrangono di fronte agli accadimenti che prima o poi, in grande o in piccolo, la vita stessa ci riserva? Non vi sembra che il limite e la fragilità dell’uomo sia oggi quanto mai svelata nella sua cruda realtà?
«Dio – ha scritto il grande teologo von Balthasar – non è una fortezza rinchiusa che noi con le nostre macchine da guerra (ascesi, introspezione mistica, ecc.) dobbiamo espugnare, è invece una casa piena di porte aperte, attraverso le quali noi siamo invitati ad entrare» (H. U. von Balthasar, Tu coroni l’anno con la tua grazia, Jaca Book, Milano 1990, p. 111).
Questa verità ci è confermata in questo giorno santo in cui possiamo cantare di fronte al Cristo Crocifisso il cantico della Vergine, nel quale emerge la verità di Dio: «Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza, per sempre» (Lc 1, 51-55). L’apostolo Pietro commenta questo passo così «Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce» (1Pt 2,24). Dio, cioè, non è un essere vendicativo: il dispiegamento del suo braccio è il braccio del Figlio amato disteso e inchiodato sulla croce. L’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati, lo sottolinea bene: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede» (Gal 3,13s). Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della vendetta e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto. Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi. Quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a completare nella nostra carne «quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24) (cfr. J. Ratzinger, Omelia pro romano pontifice eligendo, 2005, passim).

3.

C’è un altro passo che ci può aiutare in questa lotta contro i nostri muri e le nostre illusioni, che viene proclamato in questo Venerdì Santo: «Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19, 33-34).
Da quel costato aperto, da quel sangue e da quell’acqua, l’amore di Cristo tende ad espandersi e raggiungere tutte le creature, specialmente le più bisognose della sua misericordia. È il dono di Dio al mondo nel suo Figlio Gesù. È dare la gioia di sentire la vita fluire dal suo cuore verso il suo corpo, noi, la Chiesa, fino a vivificarne le membra più lontane. È la reale venuta del Signore che porta a tutti la salvezza. Il nostro non sarà così un pianto di disperazione, ma di ravvedimento e di consolazione. È questo il senso di un’altra profezia, quella di Zaccaria che l’evangelista Giovanni vede realizzata nella trafittura del costato di Cristo: «Spanderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme lo Spirito di grazia e di consolazione; essi guarderanno a me, a colui che essi hanno trafitto». Dobbiamo fare il possibile perché noi non diventiamo mai quel castello complicato e ingombro descritto da Kafka, e il messaggio di salvezza possa entrare in noi, libero e gioioso, come quando iniziò la sua corsa. Infatti, anche «il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo» (Mt 27,51). Dio non è rinchiuso nemmeno nel tempio, nel luogo più sacro, ma lo Spirito di Dion non conosce vicoli o barriere. Nell’Apocalisse, Gesù dice che sta sulla porta e bussa (Ap 3,20). A volte, come ha osservato il nostro papa Francesco, non bussa per entrare, ma bussa da dentro perché vuole uscire. Uscire verso «le periferie esistenziali del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, dell’ignoranza e dell’indifferenza religiosa, di ogni forma di miseria». (cfr. J. M. Bergoglio-Pp. Francesco, Congregazioni generali preconclave, 2013). Succede come con certi edifici che ci siamo costruiti dentro o che abbiamo seguito attraverso le illusioni. Nel corso del tempo, per adattarsi alle esigenze del momento, ci siamo riempiti di tramezzi, di scalinate, di stanze e stanzette. Arriva il momento – ed è questo – quando ci si accorge che tutti questi adattamenti non rispondono più alle esigenze attuali, anzi sono di ostacolo, e allora bisogna avere il coraggio di abbatterli e riportare l’edificio alla semplicità e linearità delle sue origini. Chi mai è all’altezza di questo compito? si domandava atterrito l’Apostolo davanti al compito sovrumano di essere nel mondo quel profumo di Cristo. Ed ecco la sua risposta che vale anche oggi: «Non già che siamo da noi stessi capaci di pensare qualcosa come se venisse da noi; la nostra capacità viene da Dio. Egli ci ha resi idonei a essere ministri di un nuovo patto, non della lettera, ma dello Spirito; perché la lettera uccide, ma lo Spirito vivifica» (2 Cor 2,16 3,5-6).

4.

Concludo con l’esortazione di San Gregorio di Nazianzo, un padre della Chiesa. Il suo insegnamento è attualissimo.
Scriveva così: «Diveniamo partecipi della legge in maniera non puramente materiale, ma evangelica, in modo completo e non limitato e imperfetto, in forma duratura e non precaria e temporanea. Facciamo nostra capitale adottiva non la Gerusalemme terrena, ma la metropoli celeste, non quella che viene calpestata dagli eserciti, ma quella acclamata dagli angeli. Sacrifichiamo non giovenchi, né agnelli, con corna e unghie, che appartengono più alla morte che alla vita, mancando d’intelligenza. Offriamo a Dio un sacrificio di lode sull’altare celeste insieme ai cori degli angeli. Superiamo il primo velo del tempio, accostiamoci al secondo e penetriamo nel “Santo dei santi”. E più ancora, offriamo ogni giorno a Dio noi stessi e tutte le nostre attività. Facciamo come le parole stesse ci suggeriscono. Con le nostre sofferenze imitiamo le sofferenze, cioè la passione di Cristo. Con il nostro sangue onoriamo il sangue di Cristo. Saliamo anche noi di buon animo sulla sua croce. Dolci sono infatti i suoi chiodi, benché duri. Siamo pronti a patire con Cristo e per Cristo, piuttosto che desiderare le allegre compagnie mondane. Se sei Simone di Cirene prendi la croce e segui Cristo. Se sei il ladro e se sarai appeso alla croce, se cioè sarai punito, fa’ come il buon ladrone e riconosci onestamente Dio, che ti aspettava alla prova. Egli fu annoverato tra i malfattori per te e per il tuo peccato, e tu diventa giusto per lui. Adora colui che è stato crocifisso per te. Se vieni crocifisso per tua colpa, trai profitto dal tuo peccato. Compra con la morte la tua salvezza, entra con Gesù in paradiso e così capirai di quali beni ti eri privato. Contempla quelle bellezze e lascia che il mormoratore, del tutto ignaro del piano divino, muoia fuori con la sua bestemmia. Se sei Giuseppe d’Arimatèa, richiedi il corpo a colui che lo ha crocifisso, assumi cioè quel corpo e rendi tua propria, così, l’espiazione del mondo. Se sei Nicodemo, il notturno adoratore di Dio, seppellisci il suo corpo e ungilo con gli unguenti di rito, cioè circondalo del tuo culto e della tua adorazione. E se tu sei una delle Marie, spargi al mattino le tue lacrime. Fa’ di vedere per prima la pietra rovesciata, va’ incontro agli angeli, anzi allo stesso Gesù. Ecco che cosa significa rendersi partecipi della Pasqua di Cristo» (Greg. Naz., Discorso, 45, 23-24 in PG 36, 654-655).

Vi abbraccio e vi benedico
Vostro Padre Marco

Novara, 10 aprile 2020, In Passione Domini