Tra attesa vigilante e indifferenza incurante. Omelia per la prima domenica di Avvento

Miei cari,
con questa domenica iniziamo il tempo di Avvento, che ha il duplice significato di preparaci all’ultima venuta del Signore «nella gloria per giudicare i vivi e i morti» (cfr. Credo) e di farci rivivere il mistero della sua prima manifestazione nel Natale. Mi soffermo, come sempre, sul brano evangelico (Mc 13,33-37) che potrebbe essere riassunto entro due coordinate precise: l’attesa vigilante in contrasto con l’indifferenza incurante. Con il primo atteggiamento si mette in luce il retto comportamento del credente, con il secondo si dà risalto al rischio che incombe, quello di disattendere agli impegni assunti col battesimo. Osserviamoli nel loro significato e nelle loro conseguenze.

L’attesa vigilante
L’evangelista Marco descrive con una parabola quale sia la situazione dell’oggi per ogni cristiano. Si narra, infatti, di un uomo che parte «dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare» (Mc 13,34). Entrano in scena subito tre protagonisti con altrettanti compiti precisi.
Il primo è questo uomo, che rappresenta il Signore che, «creatore delle cose visibili ed invisibili» (cfr. Credo), attraverso la sua Parola-fatta-carne, il Cristo, le ha portate all’esistenza (cfr. Col 1,16) e le ha affidate alla custodia dell’uomo (cfr. Gen 2,7-20).
Il secondo protagonista sono i servi, cioè tutti gli uomini e tutte le donne, a cui sono affidati gli stessi poteri del Signore: autorità di non poco conto, perché la fiducia di Dio nell’uomo è illimitata, tanto che, con enfasi poetica, il salmista descrive queste facoltà affidate alle mani dell’uomo, il quale «fatto poco meno degli angeli» ma «di gloria e di onore coronato» è «dotato di potere sulle opere delle mani di Dio … e tutto è posto sotto i suoi piedi» (cfr. Sl 8,6-9, passim).
Infine, ma non ultimo, c’è il portiere, il terzo protagonista. Chi è costui? Lo potremmo definire dal suo compito, che è quello di vegliare e di attendere. Egli è la voce della retta coscienza credente e fedele, che affidandosi a Dio senza averne paura, ne attende con gioia il grande il ritorno; è colui che esorta a non trascurare le potenzialità umane, ma ad investire in esse senza risparmio; è colui che tiene desta la mente e il cuore di ogni persona per non trasformare il creato in un fine  ma in un mezzo di sussistenza per la gloria di Dio; è, ancora, questa retta coscienza credente e fedele, colei che intravede il compimento della vita terrena in quella eterna, così da non vanificare e svilire l’esistenza su questa terra, appiattendola a scopi indebiti e mete illegittime; è, infine, questa retta e fedele coscienza, colei che ricorda al credente il senso del tutto in Dio, «nostra eterna felicità» (cfr. Atto di Carità).
L’attesa vigliante si configura così come la speranza gioiosa di un incontro che non tarderà ad avvenire. È l’incontro con lo Sposo, con Colui che può realizzare e portare a compimento tutti i desideri, anche i più reconditi, che albergano nel cuore dei credenti: la verità, la bontà, la bellezza, la giustizia, … Non importa conoscere l’ora dell’incontro a lungo desiderato tanto che l’evangelista lo ribadisce chiaramente agli ascoltatori: «voi non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino» (Mc 13,35). Ai credenti pone solo una condizione: «Vegliate» (Mc 13,35), reiterata poi a tutti gli uomini e le donne: «Quello che dico a voi, lo dico a tutti: vegliate!» (Mc 13,37) in modo che «giungendo all’improvviso, non vi trovi addormentati» (Mc 13,38).
Dunque, non è importante conoscere il momento, non solo perché il tempo e lo spazio non sono in possesso dell’uomo: è, infatti, solamente l’ “oggi” o il “qui ed ora”, che sono assegnati a ciascuno da vivere intensamente senza sprechi o indugi; ma, soprattutto, perché l’incontro con il Signore si configura come un momento di festa e di esultanza grande, «quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario, infatti, che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte. E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti» (1Cor 15,24-28).

L’Indifferenza incurante
Che cosa, invece, va a detrimento di questa attesa vigilante?
Direi, dalle parole del Vangelo, il suo contrario, un’indifferenza incurante, che si manifesta in una impazienza precipitosa o, altrimenti, in una indifferenza decadente. Entrambe descrivono le manifestazioni disgregatrici, che infestano il cuore delle persone e contro le quali il portiere della parabola ha il compito preciso di disattivarne la forza.
Chi è, invece, l’autore di queste manifestazioni disgregatrici? Come la parola stessa stesso afferma è il Diavolo (dal greco dia-ballo, colui che disgrega), che ha questa incombenza connaturata in se stesso, insinuando il dubbio e distruggendo ogni intenzione buona dell’uomo. Quest’opera perniciosa è ciò che compie dagli inizi della creazione del mondo, frapponendosi tra Dio e le sue creature, inducendo Adamo ed Eva a carpire un potere che non spetta loro, mangiando del frutto dell’«albero della conoscenza del bene e del male» ed insinuando nei progenitori il dubbio che Dio “giochi un gioco disonesto” nei loro confronti.
La realtà è, però, ben diversa.
Infatti, «Dio ha creato l’uomo a sua immagine e l’ha costituito nella sua amicizia. Creatura spirituale, l’uomo non può vivere questa amicizia che come libera sottomissione a Dio. Questo è il significato del divieto fatto all’uomo di mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti (Gn 2,17). L’albero della conoscenza del bene e del male (Gn 2,17) evoca simbolicamente il limite invalicabile che l’uomo, in quanto creatura, deve liberamente riconoscere e con fiducia rispettare. L’uomo dipende dal Creatore, è sottomesso alle leggi della creazione e alle norme morali che regolano l’uso della libertà» (CCC, 396).
Così, «l’uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del suo Creatore e, abusando della propria libertà, ha disobbedito al comandamento di Dio. In ciò è consistito il primo peccato dell’uomo. In seguito, ogni peccato sarà una disobbedienza a Dio e una mancanza di fiducia nella sua bontà» (CCC, 397).
Infatti, «con questo peccato, l’uomo ha preferito se stesso a Dio, e, perciò, ha disprezzato Dio: ha fatto la scelta di se stesso contro Dio, contro le esigenze della propria condizione di creatura e conseguentemente contro il suo proprio bene. Costituito in uno stato di santità, l’uomo era destinato ad essere pienamente divinizzato da Dio nella gloria. Sedotto dal diavolo, ha voluto diventare come Dio (Gn 3,5), ma senza Dio e anteponendosi a Dio, non secondo Dio» (CCC, 398).
Ecco in che cosa consiste questa indifferenza incurante dalla quale risvegliarsi continuamente e che il portiere della casa esorta ad allontanare e vincere con la vigilanza.

Conclusione
Concludo con questo testo che mi pare indicato per questa attesa vigilante. È di Robert Cheaib, scrittore e docente di teologia presso varie università tra cui l’Università Cattolica del Sacro Cuore e la Facoltà Teologica Teresianum, membro del Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita: «Ho cominciato a pregare / sperando che tu realizzassi i miei desideri. / La preghiera mi ha insegnato / che tu sei il mio desiderio. / Pregavo per convincerti, / col tempo ho imparato che la preghiera aiuta Te a vincere in me. / Pensavo che pregare è chiedere a Te, / ma ho capito che pregare è chiedere Te».

Buon Avvento!
Padre Marco