Purificazione e offerta della vita donata. Omelia per la festa della Santa Famiglia  

Miei cari,
l’odierna liturgia è dedicata alla contemplazione della Famiglia di Nazareth, quale esempio reale e non fittizio, nonostante l’eccezionalità delle figure che la compongono, per ogni famiglia cristiana.
Il vangelo che si proclama (Lc 2,22-40), infatti, ce lo mostra in due aspetti, che devono essere assunti da ogni famiglia costituita sia che la stessa rechi esplicitamente il sigillo sacramentale che l’ha istituita sia che non lo possa esplicitare per le tante situazioni che la vita odierna riserva, ma che lo viva però nei fatti. Questi due atti sono la purificazione della vita nascente e l’offerta del figlio a Dio. Infatti, in questo brano, che narra della presentazione al Tempio del primogenito della coppia di Nazareth, che la liturgia sceglie non a caso per questa festa, sono facilmente esperibili e altrettanto chiaramente riconoscibili, come attesta la narrazione lucana: «Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore» (Lc 2,22-24).
Tre, dunque, gli elementi da meditare oggi.

L’incarnazione reale del Figlio di Dio nel popolo della prima Alleanza e la sua necessità
Il primo dato che emerge da questa liturgia nel suo complesso, se già non fosse evidente per quanto abbiamo celebrato ieri, è che Dio si è realmente incarnato, dando compimento non solo alle promesse fatte ad Abramo e alla sua discendenza per i millenni a venire ma anche compiuto nello stesso Popolo eletto, Israele, erede di queste promesse, così come leggiamo nel primo e nel secondo testo offertoci dalla liturgia di oggi (Gen 15,1-6; 21,1-3 e Eb 11,8.11-12.17-19).
Alle domande ricorrenti: “ma non bastavano semplici istruzioni di Dio per salvarci?” “ma non erano semplicemente necessaria la nostra buona volontà a renderci integerrimi di fronte a Dio e agli uomini?”, il fatto della vera e reale incarnazione del Figlio di Dio nella storia non solo di un popolo, ma anche in quella dell’intera umanità, ci consegna un’univoca risposta: “no, non bastava”.
Era necessario, per la nostra stessa costituzione di uomini e donne che Dio si rendesse tangibile, esperibile, incontrabile. Dio discende per opera dello Spirito Santo nella carne di una Vergine come scrivono i Vangeli sinottici (cfr. Mt 1,18; Lc 1,35-38) o, come abbiamo ascoltato dall’evangelista Giovanni molto perentoriamente, «si è fatto carne» (Gv 1,).
Dio ha preso carne umana nel Figlio unigenito, perché l’umanità tutta trovasse in Lui, l’uomo-Dio, di nuovo, dopo il peccato dei progenitori, la vera umanità di fronte alla dis-umanizzazione che il peccato stesso aveva prodotto, cosicché l’unione umano-divina nel Figlio di Dio non è semplicemente di natura biologica, ma racchiude anche tutte le altre manifestazioni psichiche e spirituali che essa porta con sé, compiendole in una pienezza insperata; cosicché da questa manifestazione di Dio nella carne dell’uomo tutte le più alte aspirazioni, che il cuore umano cela, siano portate alle altezze del Cielo, a Dio, da dove esse discendono, per ridare vita a quella vocazione, impressa fin dalla creazione, l’essere creati ad immagine e somiglianza di Dio.
Questa stessa realtà appartiene totalmente ed integralmente alla stessa famiglia, cellula fondamentale della vita di relazione, nelle due modalità che l’evangelo di oggi ci dichiara.

La purificazione rituale della famiglia secondo la legge di Mosè e quella secondo la nuova ed eterna alleanza
Il primo elemento è costituito dall’atto a cui Giuseppe e Maria si sottopongono, dando seguito ad un rituale antico, di ascendenza mosaica, ma rivelatore di una dimensione ben più profonda di quella costituita da una semplice pratica religiosa di un popolo: la purificazione.
Con essa era espressa tanto per la donna, dopo il parto, quanto per l’uomo, dopo il riconoscimento del figlio, la relazione della vita umana sorta nella famiglia col datore primo della vita, Dio. Il rito di purificazione non era da intendersi tanto come una necessità di pulizia morale, ma piuttosto, come la rilettura della sessualità quale dono gratuito e sacro di Dio. La sessualità, da cui scaturisce la vita andava ri-consegnata, con la purificazione, a Colui che ne era il primo latore. Di più. La vita stessa andava purificata da ogni umana gretta gestione poiché non all’uomo ma a solo Dio era riferibile, seppur con la cooperazione dell’uomo. In questo atto c’è la grande verità riconosciuta, fin dall’antichità, che l’uomo non è padrone della vita, ma la riceve in dono e, poiché la accoglie, tanto meno non la può gestire a misura umana. I fatti della storia recente, senza andare troppo indietro nel tempo, mostrano nel terribile Novecento e nella cronaca di questo primo ventennio del XXI secolo, che quando e dove l’uomo ha manipolato la vita, gestendola indebitamente, è caduto in tali aberrazioni, di cui al solo pensiero si resta inorriditi e ammutoliti per le costanti cadute abissali attestate. Se è solo l’uomo che decide su che misura sia la vita e se è solo l’uomo che ne traccia i parametri al solo uso e consumo, non solo crea i lager, ma arriva alla seleziona della specie, senza capire – perché limitato – a quali rischi espone non solo il presente, ma anche il futuro, i cui effetti non potrà calcolare. Non sono evidentemente in discussione le potenzialità buone ed oneste  insite nel giusto progresso della scienza, ma i limiti che essa ha e ai quali non può che sottostare, per il suo stesso statuto epistemologico. Abbiamo visto e assistiamo a tutto e al contrario di tutto. La tremenda tentazione diabolica “dell’essere come Dio” che si legge nel libro della Genesi, o “del giocare a fare Dio” in tanti ambiti di vita, che ha tanta testimonianza in opere di varie letterature mondiali, ha degli esiti shoccanti e devastanti per tutti, il cui primo riflesso è nella stessa famiglia che, per sua natura, è cellula fondamentale di ogni società umana ed ne diventa il primo indicatore delle avventure senza ritorno perché senza Dio e perché alla sola misura dell’uomo. La purificazione rituale, a cui la famiglia di Nazareth, si sottopone, anche se per sua costituzione eccezionale non ne avrebbe necessità, ridona ad ogni famiglia la strada da intraprendere e perseguire, quella di evitare ogni auto-centramento ma ogni de-centramento in Dio, da cui deriva la sua stessa esistenza.

L’offerta del primogenito secondo le antiche alleanze e secondo la nuova ed eterna alleanza.
Il secondo elemento del brano evangelico di oggi è costituito dal sottostare dell’umana famiglia di Nazareth all’antica alleanza, che rivela però la ri-consacrazione di un rituale umano ancor più antico compiuto dallo stesso Mosè: l’offerta del figlio primogenito.
Era questo un’abitudine molto ancestrale, perché se ne trova traccia in tanti popoli dell’area Mediterranea, nelle forme aberranti di sacrifici umani del primogenito, ucciso per propiziarsi la vita stessa, ma che con Abramo, nell’episodio del sacrificio incruento di Isacco, trova una svolta chiara: il Dio che l’ha chiamato e gli ha dato una discendenza (cfr. Gen 15, 5-6; 17) non è assetato di sangue, cioè di vita, ma dona lui la vita stessa, perché cresca in abbondanza e abbia una discendenza immisurabile come le stelle del cielo (cfr. Gen 22,1-19). Con Mosè, dopo l’uscita dalla schiavitù dell’Egitto e con il dono della Terra Promessa, diventa rito e segno manifesto dell’alleanza tra Dio e il suo popolo in ciò, che dava continuità alla vita e alla casata: «Il Signore disse a Mosè: Consacrami ogni primogenito, il primo parto di ogni madre tra gli Israeliti – di uomini o di animali -: esso appartiene a me» (Es 13,1-2).
Anche la famiglia di Nazareth si sottopone alla Legge e riscatta il primogenito, circoncidendolo, «per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore» (Lc 2,22-24).
Che cosa significa, al di là del rito, tutto questo? Che la vita donata in una famiglia da Dio, più che offerta al Signore, diventa con il dono consacrato a Dio, ri-consegnata all’uomo, perché ne comprenda l’intrinseco significato, l’altissimo valore, l’eminente qualità. Sembrebbe quasi un gioco per ingraziarsi la divinità oppure quasi una finzione dell’io-ti-do perché-tu-mi-dia. Nient’affatto: dietro a questo c’è il grande dono della responsabilità dell’uomo: responsabilità, che diviene la risposta consapevole alla vita stessa che non si auto-genera, ma è generata da Dio stesso, datore di vita; la responsabilità all’uomo che non si auto-definisce ma è definito da Dio stesso in un rapporto creaturale ed esclusivo di amore.
Così questo si riverbera in ogni figlio e in ogni famiglia in cui nasce: nessuno vive per se stesso, ma, come persona, è responsabile, cioè risponde con tutto se stesso, dentro un rapporto aperto alla vita, al mondo, agli altri, a Dio. L’ “appartamento” di se stessi e la mancanza di queste relazioni primarie e fondamentali, così forti in tutto il secolo trascorso e nell’apertura del presente ventennio del XXI, non hanno determinato la morte di Dio, come diceva Nietzsche. Al contrario, hanno determinato la sola morte dell’uomo. Nel Novecento si è mostrato l’aberrante paradigma di quanto abisso tremendo e terrificante si sia manifestato; il nulla, che se di per se stesso è inconsistente, ha voluto affermare la sua impossibile esistenza, facendo credere di essere luce, ma estendendo fitte nebbie che hanno oscurato nella famiglia stessa, grembo stesso della vita nascente, la sua possibilità di esistere e librarsi alle altezze dei Cieli.

L’aspirazione di ogni famiglia cristiana: la cristificazione
Concludo, ritornando a quanto detto all’inizio.
Affinché non solo la nostra vita ma quella della famiglia, prima cellula della società, non rimanga, raminga a dibattersi nella sua polvere, è necessario che si riconosca nell’incarnazione del Figlio di Dio.
Affinché la nostra vita e quella della famiglia salga da questa polvere alla gloria di Dio – gloria, che non è manifestazione di effetti speciali dello strabiliante secondo la carne, ma, come insegna il suo significato etimologico ebraico, è il riconoscimento del giusto valore dell’esistente – è indispensabile che aderisca all’incarnazione del Figlio di Dio, riconoscendone la stessa gloria.
Affinché le nostre famiglie non si ingolfino nella polvere di questa umanità, è necessario che non siano né auto dirette né auto referenziali dalle sole forze e logiche umane, fini a se stesse.
Non si tratta tanto di disincarnarsi né tanto meno di spiritualizzarsi, ma di riconoscere nell’incarnazione di Dio il punto di forza, il punto di partenza, il punto di arrivo in cui vivere la vita di famiglia.
Occorrono purificazione e offerta continua e costante a livello famigliare per poter fare in modo che l’amore di Dio, che penetra l’universo dell’esistenza, si rifletta, prenda forma e sostanza, si manifesti nella vita stessa della famiglia.
Quella spada, che è vaticinata a Maria dal vegliardo Simeone, non è che la spada della Parola di Dio, che è Dio stesso. Questa spada «è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore» (Eb 4,12). Essa rivela, senza abbagliare; guarisce, senza uccidere, per mostrare «la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione … affinché siano svelati i pensieri di molti cuori» (Lc 2,34-35).
Alla salvezza si giunge, non improvvisando la vita. Alla salvezza della famiglia non si giunge men che meno improvvisandone il fondamento e la costruzione, ma solo purificando le intenzioni dei cuori e offrendo la primogenitura delle nostre intenzioni. Diversamente è solo insoddisfacente polvere che, calpestata, si alza e, levatasi, annebbia e oscura, penetra nell’intimo, creando quell’arsura irrespirabile che alla fine soffoca. Dio si fa piccolo per questo: perché sia veramente accessibile a tutti e tutti in Lui si possano riconoscere, senza timore di essere smentiti. Ma Dio non può agire, se prima non ci si purifica e ci si offre, perché Egli che è dono puro, non costringe e non si impone. Solo se Lo si accoglie, la vita personale e famigliare compie il salto di qualità.
Buona domenica della famiglia!
Padre Marco