La Chiesa in uscita. Omelia della sesta domenica ordinaria
Miei cari,
in questa ultima domenica del tempo ordinario prima dell’inizio della Quaresima concludiamo la catechesi che l’evangelista Marco ci ha proposto nelle ultime domeniche sulla liberazione dal male.
Sul brano evangelico odierno (Mc 1,40-45) mi premono solamente tre considerazioni: la prima riguarda la condizione della persona affetta dalla lebbra, malattia terribile, così come descritta dalla prima lettura di oggi (Lv 13,1-2.45-46); la seconda osserva il comportamento di Gesù, tracciato nel vangelo odierno (Mc 1,40-45); la terza tocca, infine, il luogo nel quale avviene la liberazione (Mc 1,45).
Il lebbroso: un malato e un pubblico peccatore
Scrive il Levitico, la prima lettura di oggi: «Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: Impuro! Impuro! Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento» (Lv 1345-46).
La lettura di questa terribile malattia e delle persone che sono da essa affette è svolta su due livelli tra loro tangenti ed intersecantisi. Un lebbroso, secondo la mentalità ebraica, non era solo un uomo affetto da una determinata malattia. Più che un malato era considerato un peccatore pubblico, marchiato per questo visibilmente ed esternamente dalla deformità che la lebbra procurava: una continua putrefazione della carne che staccandosi progressivamente lo conduceva alla morte. Non solo. La malattia era terribilmente contagiosa, per cui chi ne era affetto doveva separarsi dalla comunità, vivere in luoghi isolati, annunciare la sua presenza con grida o campanelli, vivere di carità e morire alla fine da solo. Nella persona affetta da questo grave male tutto ciò provocava un crescendo tormentato e infernale di reazioni intime che pervadevano la sua stessa esistenza: “non sono come dovrei essere”; “sono un isolato”; “sono un fallito anche nel mio profondo”; “è svuotata di senso la mia vita”; “io sono l’erede e il frutto visibile di un amore tradito”; “perciò dichiaro a tutti: statemi lontano!”
Gesù: il Dio-con-noi, colui che condivide la nostra lebbra
La seconda considerazione riguarda invece il comportamento di Gesù. Il Vangelo lo descrive bene, anche se la traduzione italiana non lo rende altrettanto correttamente: «Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: Se vuoi, puoi purificarmi! Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato! E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato» (Mc 1,40-42).
Gesù – scrive dunque Marco – è «adirato» col lebbroso che invoca la guarigione e non semplicemente «è mosso a compassione» (Mc 1,41), perché costui, nel chiedere la guarigione, dubita che Gesù, non lo voglia guarire. Il lebbroso dice infatti a Gesù: «Se vuoi, puoi guarirmi»(Mc 1,40). Che è come se gli dicesse, in quelle parole, «se vuoi», sono convinto che neanche Dio mi ami, dunque, non oso chiedere la guarigione ma solo invocarla e ti dico: «se vuoi». Non è un comportamento strano per allora e nemmeno per oggi, perché parte dalla convinzione assurda, che tra l’altro tutta la Scrittura combatte, che Dio castighi con la malattia o la morte gli uomini. Lo hanno pensato oggi in molti all’inizio di questa pandemia, vedendo in essa un castigo di Dio e non un semplice accadimento, dato dalle leggi della natura e dal comportamento irresponsabile di molti, giunto sino al negazionismo. La Scrittura tutta combatte questo pensiero e lo fa anche Gesù. Per questo Gesù è, dunque, adirato contro questa mentalità ma non contro le persone, che ne sono le vittime.
Gesù reagisce: nota l’evangelista che non solo «si adira», ma «tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato!». In questi suoi gesti – tendere la mano, toccare, dire – c’è tutta una ritualità del Figlio di Dio che condivide la nostra fatica; non solo; c’è tutta la ritualità della Chiesa che sull’esempio di Cristo mediante i sacramenti risana e guarisce le ferite del corpo e dello spirito.
In quel «Lo voglio, sii purificato», c’è, anzitutto, tutta la forza con cui Cristo dice in ogni istante del tempo di questa vita: “guarda, uomo, che io non cesso mai di amarti, neppure nelle tue contraddizioni”; “il mio amore è per te, creatura sublime, scelta per un rapporto singolare e straordinario con me tuo creatore!”
Ancora, ma non ultimo Gesù nel risanare quel lebbroso – scrive san Marco – «lo toccò». Toccare un lebbroso per quel tempo era uguale a contrarre la lebbra. E quindi diventare, a propria volta, lebbroso. Gesù, per l’evangelista Marco, è diventato così lebbroso, tanto che al termine del brano di oggi si dice che: «Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti» (Mc 1,45). Ma, nonostante questo – aggiunge ancora l’evangelista Marco – «venivano a lui da ogni parte» per farsi guarire. Dio creatore, in Gesù Cristo salvatore e nella sua Chiesa, non resta fuori dalla vita degli uomini, ma si compromette con loro, incarnandosi, vivendo la loro stessa vita e morendo la loro stessa morte. Questo per un’unica ragione: Dio ama gli uomini a tal punto da dare tutto se stesso in Gesù Cristo per la loro salvezza. Ecco perché Gesù è uscito dalla sua Casa, il seno del Padre, e vive tra gli uomini. Egli è veramente l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Prende contatto anche con la lebbra che affligge gli uomini, il peccato, per risanarli. Dio, nel farsi uomo in Gesù Cristo, scende fino in fondo a questo abisso e in questo deserto, in queste case, in queste strade ci incontra e ci riscatta. Ecco la novità della buona notizia che consiste non solo che Dio esiste, ma soprattutto che Dio anche ama gli uomini al punto da incarnarsi, divenendo uno di loro e salvandoli tutti nel suo amore. E questa è la stessa azione che pervade la Chiesa.
La Chiesa in uscita: la strada come luogo di incontro con gli uomini
Infine, un’ultima considerazione che riguarda il luogo nel quale è ambientato la scena di oggi: la strada.
Essa rappresenta per Gesù il Cristo il luogo abituale di vita, sulla quale viaggia in mezzo alle fatiche degli uomini. Su di essa affronta nuove vicende, tocca altre prospettive, apre nuovi orizzonti, che testimoniano fondamentante la logica di Dio: farsi prossimo tra-e-con noi uomini. Dopo la sinagoga di Cafarnao (Mc 1,21-28), che abbiamo visto essere il primo ambiente dell’annuncio, due domeniche fa; dopo la casa-chiesa di Pietro (Mc 1,29-39) in cui era ambientato il vangelo di domenica scorsa, oggi è la strada, il luogo nel quale Gesù incontra e libera dal male un lebbroso (Mc 1,40-45). Ricordo ancora quanto dissi domenica a conclusione del commento evangelico. Alla Chiesa Gesù affida lo stesso compito. Non fermarsi mai ma uscire verso gli uomini ad annunciare che Gesù è il Signore, il Salvatore. Alla Chiesa Gesù affida il mandato di non essere autoreferenziale e paga dei successi umani che per quanto buoni sono limitati. Guai a quella comunità cristiana che si isola e si appaga solo di se stessa. È destinata a morire perché «come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» (Gv 15,4). Questo è il mandato che ci è affidato dal nostro Signore, che diventa il nostro pane quotidiano da condividere al di là delle mura domestiche, al di là delle mura della chiesa-edificio, al di là delle strutture della parrocchia. Le forme e le modalità dell’annuncio cambiano: resta sempre e solo il Signore, il fondamento su cui costruire la propria vita e comunicarla agli uomini.
Buona domenica!
Padre Marco