Ri-trovare la fiducia (fede) in Dio. Omelia per la quarta domenica di Quaresima

Miei cari,
il brano evangelico (Gv 3,14-21) di questa IV domenica di Quaresima fa parte del lungo e profondo colloquio di Gesù con Nicodemo, “il discepolo occulto”, chiamato così perché si reca di notte da Gesù alla ricerca della Verità e del Regno di Dio per timore dei suoi correligionari: era, infatti, fariseo, principe dei Giudei e membro del Sinedrio; dunque un personaggio autorevole. Di questo lungo dialogo vi commento questo solo versetto: «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).

L’Amore di Dio per l’uomo
La prima evidenza, che scaturisce da queste parole, è che Dio ha  un amore incondizionato nei confronti di ogni uomo e di ogni donna, come rivela lo stesso Gesù, svelando le profondità dell’essere del Padre Suo; un amore talmente grande, per il quale non esita a mettere in gioco tutto se stesso nel dono della Persona più preziosa, con cui condivide la vita divina, il Figlio Amato: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Questa realtà, che è dichiarata apertis verbis, è il progetto di Dio per l’intera umanità: la felicità piena nell’amore divino. San Paolo nella lettera ai cristiani di Efeso, la seconda lettura di oggi, lo afferma così: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati» (Ef 2,4-5); infatti, come lo stesso apostolo aveva scritto nel capitolo precedente della medesima lettera, «in Lui [Cristo] ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,4-5). Questo disegno di salvezza esprime, dunque, l’essere profondo di Dio come amore che si comunica e che diventa la manifestazione solenne e perfetta dell’intima comunione del Padre e del Figlio e dello Spirito; un’unione che si apre a tutta la storia e tutta l’umanità per essere accolta nel medesimo amore. Dio non è un calcolatore straordinariamente potente: è l’Amore che si è assunto il rischio di chiamarci alla vita, nella somiglianza e nella differenza, per offrirci l’alleanza e la comunione con Lui. Ma proprio perché Egli offre un’alleanza, non può rivolgersi che a persone libere di scegliere e dichiararsi con un «lo voglio». Dio, in Gesù Cristo, attende, senza forzarla, questo «lo voglio» da ognuno di noi, consacrando la nostra libertà e offrendole un orizzonte, che la dilati fino all’infinito.

L’ostacolo nell’amore tra Dio e l’uomo
Da quanto detto emerge una seconda evidenza, che è costituita dalla libertà dell’uomo di scegliere o meno questa alleanza con Dio. Che cosa o chi ostacola questa comunione? La risposta è complessa, ma la possiamo riassumere in questo breve inciso: l’uomo, dopo il peccato delle origini, inizia a dubitare di Dio, non più riconosciuto come un padre o una madre amorevole, ma piuttosto un avversario, da cui difendersi e scappare, nascondendosi. Sono significative, a questo riguardo, le parole di Adam, l’uomo primigeno, come riportate dall’antico autore della Genesi, con accenti altamente teologici, ma altrettanto dolorosamente drammatici: «Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno e l’uomo con sua moglie si nascosero dal Signore Dio, in mezzo agli alberi del giardino. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: Dove sei?. Rispose: Ho udito il tuo passo nel giardino: ho avuto paura, perché sono nudo, e mi sono nascosto» (Gen 3,8-10). Dopo il peccato originale, l’uomo e la donna si nascondono da Dio perché ne hanno paura nella loro nudità. Dopo l’armonia perduta della vita nel paradiso terrestre, si affaccia la cruda consapevolezza del prezzo salatissimo da pagare per l’inganno subito, ma consapevolmente accettato: quell’insicurezza totale di scoprirsi limitati, soli, spogliati, nudi, esposti così alla furia delle vicende dolorose della vita. Per l’uomo e la donna diventa difficile sostenere lo sguardo di Dio! Ma non perché l’atteggiamento di Dio sia mutato nei loro confronti: Dio, infatti, non rinnega l’amore per le sue amate creature; ma perché ad essere cambiata è la prospettiva con cui l’uomo e la donna si rivolgono a Dio. Non va dimenticato che tutto questo non è che la conseguenza dell’opera del Tentatore, colui che chiamiamo Diavolo (cioè disgregatore) e Satana (cioè accusatore), che insidia l’umanità fin dalle origini. Questo tremendo e nefasto essere spirituale non pago della sua rovina sciagurata, vuole, con caparbia e superba malvagità, insidiare l’uomo e la donna per rovesciare il naturale approccio amoroso nei confronti di Dio, pervertendolo. Questa insidia perdura nel tempo e nello spazio e alberga stabilmente e continuamente nel cuore dell’umanità che, sottoposta così alla tentazione diabolica, replica sempre la prima e unica corruzione, dalla quale si ramificano tutte le altre. Come dice Gesù stesso nel vangelo di oggi mediante l’immagine della contrapposizione fra la luce e le tenebre: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (Gv 3,19).

La ricomposizione di questo amore fra l’uomo e Dio
Che cosa fare dunque per ricomporre il rapporto tra l’uomo e Dio?
Gesù ci chiede, innanzitutto, di sciogliere l’insidia delle tenebre, facendo luce sulla verità di Dio e di noi stessi: «Chiunque, infatti, fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,20-21). Ci è data la possibilità reale, accogliendo la luce che è venuta nel mondo (cfr. Gv 1,9.12-13), di mettere fine ai dubbi che il Tentatore sobilla continuamente al nostro cuore. Noi pensiamo che se Dio ci guardasse veramente per quello che siamo, saremmo devastati e ne usciremmo sconfitti; ciò si aggrava ulteriormente, perché, a causa di questa angosciante paura, preferiamo restare nell’oscurità della tenebra non solo di fronte a Dio ma anche di fronte a noi stessi; e quest’ultima condizione, che sperimentiamo tutti nel corso della nostra esistenza, non è affatto piacevole, ma è insopportabile, è stremante a lungo andare, frutto com’è, di continui compromessi col male.
Dio stesso, allora, ci viene incontro a rassicurarci, come scrive l’evangelista, dicendo che «non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). In Dio c’è desiderio e volontà di salvezza e non di condanna. Perciò, se è vero che nessuno di noi è tale da essere perfetto di fronte a Dio e se è altrettanto certo che ogni nostra opera può essere messa in discussione, perché frutto di creature imperfette, Dio, però, ci attesta che «non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17). Provare, dunque, a cambiare, potrà forse apparirci rischioso, poiché operare nella verità di noi stessi significherà scoprire che non facciamo tutto bene, che siamo limitati, che non ci piacciamo; ma potrà anche farci scoprire, per converso, qualcosa di inedito, di nuovo, di insperato: lo sguardo non inquisitorio ma amorevole di Dio. Sennò, non si spiegano le affermazioni dell’evangelo di oggi: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16) e «Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).
Se Dio, dunque, si manifesta attraverso il suo Verbo, la sua Parola, ciò è proprio per essere inteso da ognuno di noi.
Se ci chiama ad essere figli nell’unico Figlio, quello che Egli si attende da noi è che noi ci esprimiamo in una parola che vada a ricongiungersi con la Sua.
Come dicevamo già domenica scorsa: Dio ci dona la parola per far rinascere il dialogo.
Ma questa parola, Dio, dopo averla donata nel Figlio, ora l’attende da ognuno di noi, in piena libertà e senza alcuna paura.
Sta a noi pronunciarla, senza che essa ci sia mai imposta.
È la grandezza e il rischio della nostra vita quella di essere chiamati a suscitare la gioia di Dio attraverso la qualità e la generosità della nostra risposta.
Il vangelo non ci detterà la scelta, ma aprirà sicuramente orizzonti infiniti e insperabili al nostro desiderio di felicità.
Buona domenica!
Padre Marco