Sorprendere il bene che c’è. Bilancio di fine anno: tra le speranze deluse e le nuove persecuzioni, la novità si fa strada.
È Natale, e ci guardiamo indietro a considerare l’anno che è trascorso, così speciale nei suoi drammi.
I venti di guerra, il Covid che continua l’assedio, la tragedia infinita dei migranti, gli eventi naturali che ci sconquassano, i regimi illiberali che non trovano ostacoli sul loro cammino, l’Europa che scopre la propria anima egoista e paurosa. Tutto questo ci sembra così estremo, così angosciante da non avere paragoni. E invece i paragoni li ha, e anche tanti, nella storia umana; non a caso la Chiesa d’Oriente prega da tempo immemore: «Salvaci dalla carestia, dalla pestilenza, dal terremoto, dall’inondazione, dal fuoco, dalla spada, dall’invasione straniera e dalle lotte intestine».
Il male c’è da protagonista e sempre ci sarà, … e il bene?
Nel tempo di Natale, di fronte a questa domanda, non possiamo dimenticare i versi di Solov’ëv: «Molte cose oggi non sono, che erano possibili ieri: i re più non scrutano il cielo, e i pastori non ascoltano nel deserto come gli angeli parlino del Signore. Ma ciò che di eterno in quella notte fu rivelato non può essere ormai più corrotto dal tempo; e il Verbo nato in quell’evo remoto, sotto a una greppia, ti rinasce nuovo nell’anima».
Il bene, così, è Cristo, che nasce e resta in mezzo a noi, ma dove lo vediamo, oggi? Forse lo abbiamo colto, intravisto, sorpreso in tanti fatti piccoli e grandi che ci hanno accompagnato in quest’anno, e che magari abbiamo presto dimenticato. Ne troviamo un segno persino nei grandi anniversari del 2021, quelli di Dante e Dostoevskij, che non sono stati solo delle celebrazioni ufficiali, ma hanno richiamato (o fatto scoprire) a molti la potenza e «l’intelligenza» della visione cristiana del mondo, la cui immortalità è testimoniata dal fatto che sa ancor oggi spiegarci la realtà nella sua natura profonda, con una passione per la bellezza che nessun male può strapparci dal cuore, e che nessun sospetto può ridurre a semplice romanticismo: ricordiamo le poesie che permettevano ai detenuti nei lager di conservare un volto umano?
Non erano una fantasia romantica, ma qualcosa per cui si accettava il passo supremo. Gli anniversari dei grandi geni, che in qualche caso conoscevamo solo per sentito dire, sono stati un’occasione unica per toccare con mano questa verità sorprendente e «buona per noi anche oggi». Ed oltre ai geni universali ne abbiamo riscoperti anche altri, più «comuni» ma sempre straordinari per la lucidità della mente e dello spirito, come Clément, Averincev, ?udakova, Aleksievi?, che come pochi altri ci aiutano a «leggere» il nostro tempo confuso.
Clément, che nel mezzo delle divisioni (innanzitutto fra le Chiese), nel mezzo della sua stessa giovanile disperazione nichilista, sapeva dirci che «per chi sa guardare, tutto è miracolo, tutto è immerso nel mistero, nell’infinito. La più insignificante delle cose è un miracolo. E ancor di più lo è ogni incontro».
Averincev, che nel mezzo del tracollo umano dal quale fu segnata la fine dell’impero sovietico ci testimoniava la possibilità di uno sguardo diverso sull’uomo e la coglieva proprio in questa attenzione alla novità dell’incontro, dove si riscopre la potenza della «solidarietà minimale che coincide semplicemente con l’essere uomini insieme ad altri uomini».
?udakova, che ci ricordava come la solidarietà potesse esistere anche nel pieno dei tempi sovietici e portare un giudice (suo fratello) a rischiare tutto pur di non condannare degli innocenti: «Mamma, da noi sentenze assolutorie praticamente non esistono, ma io domani li assolverò tutti… Magari verranno già domani sera a portarmi via. Preparati. Ma non posso farci niente – sono innocenti…».
Aleksievi?, che senza aver nessuna condiscendenza nei confronti di un tiranno come l’attuale presidente della Bielorussia, ricorda ai polacchi, che in passato non hanno accolto profughi, che «questa è per loro l’occasione per riscattarsi, per redimersi da come si sono comportati allora».
E non ci deve sfuggire allora che, sotto la povertà delle nostre greppie quotidiane, cose simili le abbiamo viste anche in tempi recenti, in innumerevoli casi piccoli e sconosciuti ai più, dove l’umano ha giocato un ruolo decisivo nelle situazioni sociali e politiche, e non solo personali. L’umanità, la responsabilità, il coraggio di certe iniziative di sostegno, informazione, tutela e solidarietà spontanea – dalla Bielorussia, alla Russia – risultano alla fine dei conti la risposta più creativa, e piena di prospettive, anche là dove politicamente non si vedono vie d’uscita. L’esistenza stessa dell’umano è la via d’uscita, senza la quale nessuna riscossa può neanche iniziare.
Per cui, se i venti di guerra, le tragedie ai confini e in mare, gli ultimatum fra paesi non si cancellano con un colpo di spugna e richiedono drammaticamente che la politica ritrovi un’anima, dobbiamo tuttavia sapere che la risposta parte sempre e comunque di qui, dal singolo uomo che riconosce l’orizzonte dell’Eterno.
E dobbiamo sapere anche che ciascuna delle crisi attuali ha delle ragioni precise e delle radici lontane, e che quindi gettare oggi la buona semente è il gesto più lungimirante che possiamo fare per evitare le crisi del futuro, anche se non sappiamo come né quando questa semente darà frutto.
Uno dei fatti più inattesi di quest’anno – certo qualcuno lo considererà molto marginale – è stata l’iniziativa dei musulmani di Mosca di tradurre autonomamente l’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco. Chissà da quali precedenti incontri felici (o forsanche infelici, però non tali da bloccare per sempre ogni rapporto) col mondo cristiano è scaturita questa decisione, ma di certo essa ha provocato un’apertura e un’uscita da parte dei cristiani, un incontro e la stima vicendevole. Da Mosca l’iniziativa è poi passata a Damasco…
Questa è la vera novità: che l’inerzia del sospetto, di secoli di inimicizia e sorda lontananza si sfaldi qua e là, aprendo brecce.
E i frutti si moltiplicano: è di qualche giorno fa la lettera che l’arcivescovo cattolico a Mosca Paolo Pezzi ha inviato a tutti i leader religiosi della capitale, cristiani (ortodossi, assiri d’Oriente, armeni, luterani, anglicani) ma anche di altre religioni (ebrei, musulmani e buddisti), invitandoli a dare il loro contributo alla discussione sulla sinodalità, che la Chiesa cattolica ha messo a tema per i prossimi due anni: «Mi permetto di chiedervi se volete trasmetterci le vostre riflessioni o i vostri auspici in merito».
Una richiesta che pare persino ingenua, di certo umile e non formale, dietro alla quale sta verosimilmente la constatazione che i doni dello Spirito si manifestano dappertutto, anche fuori dai nostri recinti. E bisogna raccoglierli.
È un gesto nuovo anche questo, perché è fuori dalle consuetudini morte, viola le regole umane e spariglia i giochi di potere; non tutti l’hanno apprezzato, alcuni lo hanno giudicato con supponenza, altri hanno subodorato chissà quali sovvertimenti della gerarchia costituita (come può una Chiesa minoritaria prendersi simili iniziative in casa altrui?), e invece nella sua franchezza apre vincoli di amicizia e va al fondo del problema, mettendo in discussione presunte sicurezze proprie e in crisi eventuali sospetti altrui: come possiamo parlare di sinodalità tra noi se non sappiamo cosa lo Spirito ha suggerito ad altri?
È scritto che Cristo fa nuove tutte le cose, persino le gerarchie politiche ed ecclesiastiche. Cos’altro ancora può rinnovare, spetta a noi capirlo… Quel che vediamo intanto è che lo Spirito è capace di rinnovare senza distruggere. (la Redazione in La Nuova Europa)