Un Natale scomodo

Qualche anno fa Pierluigi Battista scrisse, sulle pagine del Corriere della Sera, delle parole che valgono, ancora oggi, per chiunque si fermi a riflettere e scrivere sul Natale.

“Non abbiate paura, anche questo Natale passerà.

Se siete un po’ soli,

se siete rimasti soli,

se siete ancora soli,

se vi sentite soli anche con famiglie multiple e numerose,

se la festa dell’armonia, del calore familiare, dei legami, della pace, la sentite ostile e persino offensiva perché non siete in sintonia con il mondo, sappiate che c’è una sola ricetta.

Peggio della retorica natalizia, c’è solo la retorica antinatalizia.

Peggio del dolciastro del Natale, c’è solo il titanismo patetico di chi vorrebbe mettere una bomba (metaforica) sotto l’albero.

C’è solo un consiglio saggio: il Natale rischia di farvi star male? Ignoratelo”.

Il Natale, soprattutto in Occidente, si è da tempo secolarizzato. Il giorno che ricorda la nascita di Cristo e il Suo messaggio di salvezza per l’umanità, a molti appare incentrato solo su di uno scambio consumistico di regali. Può sembrare un paradosso, ma per riscoprire il “Natale” bisognerebbe abolire il “natale”. Andiamo con ordine.

Un antico proverbio armeno racconta che “per fare un albero di Natale ci vogliono tre cose: gli ornamenti, l’albero e la fede nel futuro”. È proprio la fede nel futuro che, a volte, manca nelle celebrazioni del 25 dicembre. E se il nostro futuro davvero fosse in quel punto del passato? Non smette di colpire la potenza dell’annuncio storico del Natale che è trasmesso da generazione a generazione: «All’epoca della centonovantaquattresima Olimpiade; nell’anno 752 dalla fondazione di Roma; nel quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Ottaviano Augusto, mentre su tutta la terra regnava la pace, nella sesta età del mondo, Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, (…) nasce in Betlemme di Giuda».

In quel momento «regnava la pace», racconta il Vangelo di Luca. C’era pace nel cuore di Maria, come e in quello obbediente di Giuseppe. Questo ha permesso al Verbo di rivestirsi di carne. Un antico documento, il Cronografo dell’anno 354, rivela che a Roma iniziarono a celebrare il Natale il 25 dicembre, “convertendo” la celebrazione pagana del solstizio d’inverno, Dies Natalis Solis Invicti, la nascita del nuovo sole. È dopo la notte più lunga dell’anno che si celebra la nascita della Vita. Anche oggi, duemila anni dopo, c’è bisogno di pace.

La fede nel futuro si rigenera nella pazienza del presente. Scrive Gregorio di Nissa: «vivere è l’infinita pazienza di ricominciare. Noi andiamo tutti di inizio in inizio, attraverso inizi sempre nuovi. Perché, con Dio, c’è sempre un dopo».

È come se camminassimo su un crinale in cui dobbiamo scegliere se sbilanciarci sul lato della morte o della vita. Nel primo caso ci neghiamo il futuro, nel secondo ci sbilanciamo, con fede, sul futuro. Rimane la paura di sempre: «Alla nascita di un bambino il mondo non è mai pronto. (…) Non c’è vita che almeno per un attimo non sia immortale. La morte è sempre in ritardo di quell’attimo» (Wislawa Szymborska). Da una parte il dono, dall’altra la responsabilità. Accogliere un bambino, tenerlo in braccio e farlo crescere, ci impone responsabilità. I credenti e i non credenti condividono insieme l’esperienza della potenza della vita.

All’origine di tutto ci sono un dono e una luce che svuotano dal potere e illuminano la nostra fragilità. Senza questo rischia di avverarsi ciò che scrive il Cardinale Ravasi: «il denaro può comprare una casa ma non un focolare. Può comprare un letto ma non il sonno. Può comprare un orologio ma non il tempo. Può comprare un libro ma non la conoscenza e la saggezza. Può comprare una posizione ma non il rispetto. Può pagare il dottore ma non la salute. Può comprare il sesso ma non l’amore». Il Natale, invece, è focolare, riposo, tempo, conoscenza, saggezza, salvezza e amore.

La radice latina del termine è natum, “generato”, una parola potente. Quando non si accoglie la Vita cresce la diffidenza tra le persone, aumentano i conflitti sociali, prevale la sfiducia sulla progettualità. Lo ha ribadito anche il 56° Rapporto Censis di quest’anno, immerso in un velo di pessimismo e di paura. «La società italiana – afferma – entra nel ciclo del post-populismo. Alle vulnerabilità economiche e sociali strutturali, di lungo periodo, si aggiungono adesso gli effetti deleteri delle quattro crisi sovrapposte dell’ultimo triennio: la pandemia perdurante, la guerra cruenta alle porte dell’Europa, l’alta inflazione, la morsa energetica. E la paura straniante di essere esposti a rischi globali incontrollabili».

Fa riflettere la frase scelta per definirsi da più del 50% degli intervistati. Un pensiero che nega il senso del Natale: “Lasciatemi vivere in pace nei miei attuali confini soggettivi”. L’apatia sociale di molti blocca energia, laboriosità, operosità: 4 italiani su 5 “non hanno voglia di fare sacrifici per cambiare”.

Quando non si ha un “per chi” vivere non si intravede nemmeno il come e il dove dirigersi. Le aspettative si sgretolano per l’assenza di motivazioni forti. In questo vuoto si annidano paure nuove, soprattutto da parte di chi dovrebbe essere portatore di vita nuova: l’84,5% degli italiani, in particolare i giovani e i laureati, ritiene che eventi geograficamente lontani possano cambiare le loro vite; il 61% teme che possa scoppiare la Terza guerra mondiale, il 59% che scoppi la bomba atomica e il 58% è convinto che l’Italia possa entrare in guerra.

Per gestire la denatalità, la longevità, la crisi della famiglia e l’ondata di emigrazione italiana verso altri Paesi, occorre che a livello sociale si riaffermi un grande “sì alla vita” per custodire le politiche sociali dell’Italia e per ripensare gli stili di vita basati sul consumo e sulla solitudine.

Il Natale illumina chi scommette sulla vita. Per fortuna, loro sono ancora tanti rispetto a chi predilige le tenebre della gelosia, della mal informazione, della calunnia e della corruzione. Ma è nella notte oscura che brillano le stelle. Sono loro la garanzia della ripartenza per costruire un nuovo «collante» nella società. Lo sguardo positivo nei confronti degli altri, che è conseguenza dell’approccio di speranza e di fede nella Vita, pone nelle condizioni migliori per affrontare le derive negative.

Francesco Occhetta comunità di connessioni