Chiamati a portare frutto. Omelia per la quinta ed ultima domenica di Quaresima
Miei cari,
in questa ultima domenica di Quaresima terminiamo il nostro cammino che ci ha portato ad essere di fronte a Dio nella completa verità della nostra vita a partire dalla ri-scoperta progressiva del Suo vero volto, che nell’innalzamento del Figlio Amato, mostra la Sua e nostra Gloria. In questa domenica ci è offerto un ulteriore salto di qualità in queste semplici parole, tratte dal brano di Vangelo (Gv 12,20-33), che è proclamato: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Contestualizziamolo e comprendiamolo.
Dalla fama (umana) alla Gloria (divina)
La fama e la notorietà di Gesù si sono estese oltre i confini della minuscola terra d’Israele, tanto che vi sono alcuni stranieri, Greci in questo caso, che chiedono all’apostolo Filippo, anche lui greco di origine come il suo nome indica, di incontrare Gesù per conoscerlo, dicendogli: «Signore, vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Filippo lo riferisce ad Andrea, uno dei discepoli più intraprendenti, anche lui con un nome greco, il quale, tutto gioioso per questa popolarità acquisita dal loro gruppo, lo comunica a Gesù, ottenendone però una risposta sconcertante, che riporta la questione alla sua verità, dichiarando apertis verbis: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23).
Gesù indica che è giunta sicuramente l’ora della sua glorificazione, che non passa attraverso la fama e la notorietà secondo l’umano sentire, fatta di effetti spettacolari e superficiali, ma che, invece, rientra nella manifestazione delle profondità del Mistero della Redenzione, in cui il Cristo di Dio, sarà senza alcun fraintendimento, riconoscibile. Che cosa è, infatti, la gloria divina? Il termine kab?d, che noi traduciamo con gloria, indica letteralmente il peso/il valore specifico di una cosa, non in termini estetici e spettacolari, quanto piuttosto nel suo valore intrinseco ed esistenziale. Vedere la gloria di Dio significa, perciò, comprendere fino in fondo la verità di chi sia Dio, e cosa che all’uomo, vista la sproporzione, è dato di comprendere pedagogicamente perché non sia oppresso.
La Gloria di Dio è la manifestazione del suo Amore
In che cosa, dunque, si consiste la Gloria di Dio? Nel suo amore smisurato e non ricattatorio, disinteressato e non egocentrico, fecondo e non sterile. Gesù lo esprime nel versetto centrale di questo passo evangelico: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Come il chicco di grano che, seminato, si spacca per rompere le zolle di terra, per mettere le radici e per germogliare, innalzando dapprima lo stelo, poi liberando le foglie e, infine, producendo la spiga granita, pena la sua morte; così, allo stesso modo, sarà per il Messia che, mostrando la vera natura di Dio, indicherà nel dono e nell’offerta di sé, la salvezza universale. Il Figlio “spaccherà se stesso” per produrre frutto e per generare vita in abbondanza non ad uso e consumo esclusivo di se medesimo, ma per estenderla in misura inverosimile a tutto quanto il creato. È il senso del Mistero pasquale che Gesù dichiara esplicitamente: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (Gv 12,25). La natura di Dio non è, dunque, la sottolineatura del proprio ego; questa è, al contrario, la natura dell’uomo, che impaurito dal Tentatore – come dicevamo nelle scorse domeniche – si costruisce attraverso l’inconsistente sottolineatura della propria identità fallace.
La Pasqua del Figlio di Dio
Nel mistero pasquale noi assistiamo, al contrario, all’annichilimento del Figlio di Dio a favore dell’uomo, come dice l’agiografo nella seconda lettura di oggi, ove ricorda che «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb, 5,8); cosa contraria questa a quanto noi viviamo, perché nel nostro annullamento non vediamo altro che il nulla, indotti come siamo dal Tentatore che ci disgrega nel dubbio angoscioso che Dio sia solo l’avversario e l’antagonista da temere e non il Padre di cui fidarsi e a cui affidarsi.
Nel Mistero pasquale del Figlio di Dio assistiamo allo scontro tra l’umanità decaduta e quella che, invece, attende la redenzione. Di nuovo l’autore della lettera agli Ebrei ce lo ricorda, dichiarando: «nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5,7). Parole a cui l’evangelista Giovanni fa eco, ricordando quanto pronunciato da Gesù di fronte ai suoi discepoli attoniti e stupiti: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!» (Gv 12,27). L’evangelista anticipa in questo passaggio l’agonia del Getsemani, che gli altri narreranno successivamente. Gesù sente il peso della carne che ha assunto e della sua potenza contraria alla logica dell’amore-che-si-dona: per questo è turbato, anzi, angosciato, e lo dichiara apertamente al Padre. Ma le Sue parole, a differenza di quelle di ogni uomo, sono espressione dell’affidamento incondizionato a Dio, il Padre che conosce e ama nel profondo, vincendo così la tentazione del dubbio, che prova l’uomo di fronte al dramma della sua esistenza: fidarsi o non fidarsi di Dio? Come dice appunto l’autore della lettera agli Ebrei nelle parole già ricordate poco sopra: «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb, 5,8). Cristo vince, in questo modo, questo sgomento indotto dal Tentatore e mostra all’uomo che si può vincere, imparando «l’obbedienza da ciò che patì» (Eb 5,8). Per questo Cristo grida: «Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,28) affinché si riveli la glorificazione vera contro ogni fama effimera. «Venne allora una voce dal cielo – scrive, infine, l’evangelista Giovanni – L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!» (Gv 12,28). Il creato intero si ricompone nel Mistero della Pasqua di Cristo e si rinnova, indicando all’uomo la strada da percorrere, come ribadisce Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,30-32).
La Pasqua del cristiano
Di fronte alla glorificazione del Figlio di Dio, che è anche la nostra, siamo chiamati ad assumere lo stesso Suo comportamento, espresso nel versetto centrale del passo evangelico di oggi: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).
Sarà stata vana questa Quaresima, se non avremo compreso fino in fondo la posta in gioco, la nostra felicità e la nostra piena realizzazione. Non sarà stata vana questa Quaresima, invece, se avremo accettato la logica del chicco di grano, che sprigiona dalla terra, una volta spezzatosi, la spiga ubertosa, portatrice di vita in pienezza.
Buona domenica!
Padre Marco