“Gesù, la Chiesa e i Poveri. Dare un’anima al volontariato”. Discorso alla città e alla diocesi del nostro Vescovo Franco Giulio. San Gaudenzio 2023
Il Vangelo della festa di san Gaudenzio di quest’anno (Mc 14,3-9) ci parla del gesto della donna di Betania che versa il suo profumo preziosissimo per onorare la pasqua di Gesù. Il racconto dice: «giunse una donna, che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore» (Mc 14,3). Essa porta quasi mezzo chilo di profumo molto costoso, tenuto in disparte per l’occasione della vita in cui mostrare la sua bellezza. Il gesto della donna-Chiesa che onora il corpo crocifisso di Gesù, che lenisce le ferite della passione con il balsamo più costoso, è motivo di scandalo e di mormorazione: «Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri» (Mc 14,5). Trecento denari sono il salario di un anno di un bracciante palestinese, sono una cifra spropositata. I presenti sussurrano che si poteva barattare il gesto della donna per aiutare i poveri. A questo punto Gesù prende la parola: «lasciatela stare/lasciala fare, perché la infastidite?» (Mc 14,6). Bisogna che noi sciogliamo la donna-Chiesa, che non teniamo legata nei lacci dei nostri calcoli umani la Chiesa che pone al centro il Signore. Lasciatela stare! Permettiamo alla Chiesa di rimanere presso la croce, liberandola dall’essere solamente una società di mutuo soccorso. Solo così scopriremo di avere occhi nuovi per i poveri. Gesù ce li mostra di nuovo con un indicativo sconcertante: «I poveri infatti li avete sempre con voi» (Mc 14,7)!
Perciò nell’omelia orale [il testo integrale sul sito diocesano] svolgo solo due aspetti: 1) ascoltiamo la Parola di Gesù che ci consegna i poveri; 2) alcune indicazioni sul volontariato oggi.
1. La parola di Gesù che ci consegna i poveri
Gesù risponde a chi voleva utilizzare il valore del profumo preziosissimo, affermando in modo enfatico: «I poveri infatti li avete sempre con voi». Con questa dichiarazione ci dice che i poveri sono un appello, un compito, una chiamata comune.
* I poveri sono un “appello” (I poveri li avete…). I poveri sono una realtà vera e chiedono alla Chiesa di essere ascoltati e accolti. Se però Gesù non ce li mostra nella giusta luce, essi possono essere solo un bisogno da soddisfare, una relazione di aiuto da servire, un numero statistico da indagare, un progetto da sostenere, una micro o macrorealizzazione da promuovere. Per il Vangelo i poveri sono un “appello” che Gesù ci invia perché noi possiamo scoprire la nostra chiamata. Senza leggere nei bisogni una domanda più radicale, senza ascoltare la chiamata ad un bene più grande, una cura delle povertà intesa in modo solo materiale, non apre né il singolo né la società alla ricerca di quel bene che solo riempie il cuore dell’uomo. Questo è l’appello che viene dai poveri e che bisogna ascoltare. Esso ci dice che il povero non ha bisogno solo di aiuto, ma di comunione, che egli non è solo un essere di bisogno, ma è una libertà che chiede relazione e prossimità. L’appello che arriva dei poveri è questo: “aiutate i bisognosi a liberarsi dal loro bisogno”. I poveri sono il libro in cui io leggo che anche la mia vita, così piena di cose e di beni, manca dell’unica cosa necessaria che è la capacità di relazione, di condivisione, di amore, di affetto, di dedizione, di vocazione.
* I poveri sono un “compito” (li avete sempre…). Nella parola di Gesù appare un provocante avverbio: li avete “sempre”. I poveri sono un impegno “interminabile” per la Chiesa e per la società. I poveri non possono essere un compito episodico, un’attenzione da risvegliare quando accade un’emergenza, succede una tragedia. I poveri sono un compito costante per il credente e la Chiesa. Se si ascolta la loro chiamata, allora i poveri, gli ultimi, sono un compito che stimola una dedizione costante, che sollecita cammini di fedeltà. Il “sempre” di Gesù esclude che si possa essere a mezzo servizio con i poveri, che ci si possa accostare con l’atteggiamento del “mordi e fuggi”. Dare una mano, aiutare nel volontariato, contiene un interrogativo forte sulla nostra identità. “Dare una mano” significa “stringere una mano” per camminare insieme. Fare il volontario non può lasciarti come prima, non può non cambiarti la vita. Uno non può essere competitivo e arrivista al lavoro durante la settimana e vestire al sabato i panni del volontario. Pertanto bisogna superare la pratica di un volontariato solo estemporaneo, improvvisato, che non persiste nell’impegno.
* I poveri sono una chiamata “comune” (…con voi). Gesù dice che i poveri li avete sempre “con voi”. La prossimità della Chiesa ai poveri ha da essere fatta con uno stile ecclesiale, deve suscitare vocazioni comuni e cammini d’insieme. La storia interminabile della carità non è tanto la storia di singoli profeti o di operatori isolati, ma i grandi santi della carità sono stati trascinatori di altre persone, punti di attrazione di innumerevoli vocazioni, capaci di contagiare in poco tempo la vita di molti. La carità (e la Caritas) non può procedere divisa, in ordine sparso, secondo la logica del piccolo è bello. Per la carità si esige coralità, senso del gioco di squadra, investimento comune, convergenza di forze, unità di risorse o come si dice oggi “fare rete. Senza concorrenze e gelosie. Se la carità non mette in discussione la vita della comunità e i suoi modi di annunciare, celebrare, ma soprattutto di fare Chiesa, è destinata ad essere lasciata agli “specialisti della carità”. In questo modo i poveri non sono veramente “con noi”!
2. Alcune indicazioni sul volontariato oggi
Vorrei ora dare alcune indicazioni pratiche, che nascono da due preoccupazioni. Mi colpisce da un lato il venir meno di uno spirito di gratuità nel volontariato degli adulti e dall’altro la caduta del volontariato nel mondo giovanile. Sul primo tema spendo solo una parola: il percorso di inquadramento di tante forme di volontariato nella legge sul Terzo Settore può correre il rischio di spegnere il volontariato umile e gratuito. Le comunità cristiane e i pastori non dovranno smettere di favorire un volontariato disponibile, che sia semplicemente gratuito. Solo con l’ossigeno della gratuità anche il volontariato più strutturato e a tempo pieno non perderà la sua anima di generosità. Chiedo alle comunità cristiane e ai gruppi di volontariato di cercare i modi con cui correggere l’impoverimento del volontariato gratuito.
Mi soffermo invece un po’ di più sul secondo tema: il cammino formativo del volontariato giovanile. I giovani sembrano assenti dal servizio, ma le inchieste indicano uno dei motivi nel fatto che gli adulti non danno a loro sufficientemente spazio. Bisognerà abbassare la soglia di accesso per il loro ingresso nel campo del volontariato.
Il servizio sociale, l’amore del prossimo, la dedizione agli altri, nascono come un impulso del cuore: alcuni infatti preferiscono parlare con le mani, con il lavoro comune. La nostra società è piena di questi giovani, ma l’educazione prevalentemente verbale (anche nei nostri gruppi giovanili), poco incline al tirocinio e alla fatica, mette ai margini questo tipo di persone, forse senza saperlo. Ciò non significa che questi ragazzi e giovani non abbiano sentimenti, sogni, progetti, desideri. Avendo difficoltà ad esprimerli a parole cercano un’altra via: pensano che li possano vivere con i gesti, con i fatti. È una felice sorpresa vedere come molti, su cui non scommettevamo, li ritroviamo impegnati anche per lunghi periodi in altri luoghi: nella Caritas, nella Croce Rossa, nei Vigili del fuoco, nel WWF, o altre forme di volontariato. Un educatore armonico deve saper bene interpretare i desideri, le persone, i caratteri, i tipi umani. Dare una mano fa sentire attivi, importanti, protagonisti, ma ciò non va subito interpretato come un tratto sconveniente, un gesto da praticoni.
Occorre far percepire che il gesto del servizio contiene per il giovane una domanda, un interrogativo sulla propria identità. Il servizio non solo esprime, ma costruisce l’identità personale, toglie dall’improvvisazione, fa ordinare la vita, obbliga a resistere alla fatica e allo sforzo, struttura la personalità, plasma il carattere, costruisce la spina dorsale, stabilizza nelle situazioni difficili. Bisogna pertanto prospettare una diversità di modi: più elastici per i ragazzi e gli adolescenti, dove il servizio ha ancora la funzione dell’esperimento, del tentativo di fare per provare se stessi; più continuativi per i giovani, dove il servizio richiede una dedizione a obiettivi comuni, dove si mette insieme non solo lo sforzo, ma anche il progetto, gli ideali, il controllo dei risultati, la continuità sulle lunghe distanze.
L’interrogativo su se stessi, sulla propria identità, sulla tenuta personale, porta con sé la domanda sul proprio futuro: ci interroga non solo sul che cosa farò, ma su come sarò domani. L’identità personale diventa responsabilità, cioè risposta a una chiamata iscritta nel gesto di aiuto. Il servizio della carità parla della vita, fa ascoltare il suo appello, indica che le scelte e la generosità contengono una provocazione: non solo per sé, ma con gli altri, non solo per dare una mano, ma per stringere una mano. Più francamente significa maturare in una “vocazione”. Se ci pensiamo, così è avvenuto per molti di noi, anche se non ne eravamo coscienti: si è scelta una persona con cui vivere perché camminava con noi, perché le esperienze fatte diventavano un filtro nella scelta anche degli altri; oppure si è scelta una comunità con cui condividere un sogno, un destino, un servizio per tutta la vita.
Oggi questa parola spaventa: “per tutta la vita” non si deve scegliere, dice la cultura dominante, perché domani cambiano le cose e noi stessi; tuttavia “per sempre” si può decidere se prima abbiamo provato noi stessi in una generosità non improvvisata, che assaggia come all’aperitivo, senza mai sedersi al banchetto della vita. La carità da se stessa richiede di diventare scelta di vita: altrimenti molti giovani, che hanno fatto un cammino di formazione e di fede, li potremmo trovare domani con comportamenti che sembrano aver lasciato alle spalle il proprio volontariato come un esperimento giovanile romantico e superato nella vita adulta. La formazione al volontariato deve prospettarsi questa mèta, perché esso non sia solo il sapore di una stagione della vita, ma il colore della propria vocazione. Si può essere preti, sposati, laici, missionari, professionisti, politici in mille maniere. Il tocco di un’esistenza che si lascia permeare dalla generosità dà all’esistenza il suo tratto umano e cristiano. Il percorso della carità approda alla carità come “missione”, mette per strada gli uomini e le donne della carità!
Mentre stavo pensando all’omelia di san Gaudenzio è venuto a mancare Dominique Lapierre, fecondissimo autore del best seller mondiale, La città della gioia (1985), che ha venduto oltre dieci milioni di copie nel mondo, un libro-testimonianza nato dall’incontro con Madre Teresa di Calcutta. Ha voluto che sulla sua tomba fosse scritto un proverbio indiano: «Tutto ciò che non è donato è perduto». Questo proverbio richiama l’unico detto di Gesù, non citato nei vangeli, che ci è giunto però attraverso gli Atti degli Apostoli: «C’è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Questa è la differenza della carità cristiana: ciò che è donato non solo non va perduto, ma corona di gioia la nostra vita!
+Franco Giulio Brambilla
Vescovo di Novara
Novara, 22 gennaio 2023