Il dono di alzare lo sguardo e guardare lontano. Omelia della 4° domenica di Quaresima.
Miei cari,
anche questa domenica, detta Laetare cioè della Gioia, perché cade a metà del tempo di Quaresima e lascia intravedere ormai imminente il giorno di Pasqua, non posso pronunciare l’omelia. Dunque, ve la invio, perché nel tempo disteso del Giorno del Signore, possiate raccogliere qualche spunto per la vostra riflessione personale e in famiglia.
Del lungo vangelo (Giovanni 9,1-41) che si proclama e che narra della guarigione di un uomo, nato cieco, raccolgo una provocazione dal dialogo che Gesù svolge con il cieco, ormai guarito: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi» (Gv 9,39).
Consideriamo, dunque, due categorie di cristiani (restiamo sempre tra noi che ci definiamo tali, prima di valutare gli altri). La prima è fatta di quelli che vedono sicuramente con gli occhi, ma non guardano “al di là del loro naso”. La seconda di quelli che vedono con i loro occhi ma sono anche capaci di andare “al di là del loro naso”.
I.
Il primo gruppo è fatto di persone che camminano tutta la vita a capo chino, con gli occhi bassi. Sembrerebbero saggi e umili: infatti, non si esaltano ed evitano imprese temerarie. Ma ad un attento osservatore essi appaiono, invece, come ripiegati su se stessi, chiusi nei loro pensieri, indifferenti a tutto ciò che si muove attorno a loro e alla persone che camminano accanto a loro. A prima vista sembrerebbero soddisfatti e contenti, ma talora si sono rassegnati non solo nel prendere la vita come viene ma anche nel raccogliere solamente il loro “utile particulare”. Vedono, dunque, con gli occhi, ma sono diventati ciechi con il cuore, perché non si sognano mai di alzare la testa e guardarsi attorno. Su di loro Gesù ha parole sconsolate, espresse bene nel vangelo di oggi: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché … quelli che vedono, diventino ciechi».
II.
Poi c’è il secondo gruppo, quello dei cristiani che, invece, stanno sì a capo chino, ma per sapere dove mettono i piedi, epperò hanno anche il coraggio di alzare gli occhi verso il mondo che li circonda, verso le persone con cui vivono, verso l’azzurro del cielo. Tutto, infatti, per loro è importante! Sanno che il mondo è abitato da promesse e da speranze. Dalle promesse, quelle per le quali il mondo che li circonda non è solo un deserto avaro di frutti, ma può essere anche un campo ubertoso, dove si scorgono semi e frutti di bene. Dalle promesse, quelle per le quali le persone che abitano questo mondo non sono proprio tutte nemiche, sempre pronte ad attentare alla loro esistenza, ma sono anche capaci a tendere la mano. Dalle promesse, quelle per le quali il cielo può anche essere minaccioso ma, nello stesso cielo, dopo le intemperie di stagione, il sole è sempre pronto a risplendere e a riscaldare con i suoi raggi benefici.
Queste promesse divengono così speranze sperimentabili, a condizione che si abbia l’ardire di alzare lo sguardo e cercare quei semi di vita che infondano fiducia, rincuorando il logorante quotidiano. Coloro che alzano gli occhi osano vedere lontano. Ebbene, proprio costoro, diventano il popolo della speranza: cosicché non vivono più solo ripiegati su se stessi, soddisfatti e rassegnati a una sistemazione rassicurante, ma sperano nella Promessa che è Dio stesso. Questo popolo della speranza si affida a Dio e cammina verso quella terra promessa, che si chiama vita eterna, la stessa vita di Dio. Questo popolo della speranza non si immagina che la comunione con Dio sia solo una parentesi nella vita, che talora può essere banale e precaria; piuttosto pregusta già il sapore della felicità che nasce dalla consapevolezza che Dio cammina con lui. Questo popolo della speranza non spera di essere felice! Ma è già felice, perché, vedendo che il Dio di Gesù Cristo rende ragione delle promesse, le trasforma in speranza palpabile. Questo popolo della speranza, perciò, legge la sua storia e quella del mondo intero come una continua vicenda di semina e di raccolto. Questo popolo dlla speranza guarda i fratelli e le sorelle che incontra nel cammino quotidiano della vita come persone chiamate ad essere un buon raccolto per il regno.
Anche per questo popolo della speranza Gesù ha parole che, invece, rinfrancano, espresse bene nel vangelo di oggi: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano».
III.
Concludo.
Questo popolo della promessa e della speranza ha una grande responsabilità. È mandato da Gesù, come il cieco rinato a “vita/vista nuova”, di cui ci parla il vangelo di oggi, a tutti, cristiani e non, con lo scopo dichiarato di far guarire da quella cecità che impedisce di vedere il futuro che è Dio. Con una modalità chiarissima: tendere la mano e accompagnare con dolcezza, senza puntare mai il dito con fare accusatorio. Quest’ultima azione è un affare di Dio, non degli uomini. Infatti, come dice Gesù nel versetto di oggi: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi».
Buona domenica!
Vi abbraccio e vi benedico
Vostro padre Marco
Novara, 22 marzo 2020
IV domenica di Quaresima, del Nato Cieco