Le parole del nostro vescovo a Il Corriere di Novara: intervista

Il nostro vescovo Franco Giulio Brambilla ha rilasciato ieri a Il Corriere di Novara il 9 aprile scorso a cura di Ettore Colli Vignarelli
Eccellenza, la nostra città, il suo territorio, l’Italia intera, stanno vivendo una situazione del tutto inedita. C’è tanta paura. Un sentimento che sul piano umano accomuna tutti. Il vescovo ha paura? Certo che ho paura! Non solo per me, ma per i nostri preti, per le comunità cristiane e per le molte persone che conosco e a cui voglio bene. E poi anche per tutte le persone della città di Novara, della provincia, dei due Laghi, dell’Ossola e della Valsesia. La nostra Diocesi è quasi come il regno di Carlo V su cui non tramontava mai il sole… Ho timore per la vita delle famiglie, per quelli che non hanno nulla e che vivono di espedienti, per il lavoro dei papà e delle mamme, per le attività produttive, perché, una volta finita o allentata la morsa del virus, non esploda la povertà sociale, la crisi delle imprese, soprattutto quelle piccole, la depressione per il turismo, la fragilità e la vulnerabilità dei più deboli. Le paure e le ansie di oggi sono soprattutto concentrate sui nostri malati, sui molti che ci hanno lasciato anzitempo. Ogni famiglia piange un congiunto, un parente o un amico…
L’altra sensazione che in molti stanno vivendo  è quella della solitudine. Lei come la vive?  Non ho molte difficoltà, perché ho più tempo per pregare, leggere, scrivere (ho scritto molto in queste quattro settimane). E anche per telefonare, contattare le persone attraverso i social media. Sto telefonando a tutti i preti, e chiedo come va nelle loro comunità, cosa stanno facendo, che iniziative hanno creato, come manifestano la prossimità tipica del parroco e del prete diocesano. Mi preoccupa la solitudine degli anziani, nelle case di riposo, o a casa propria, perché soprattutto loro sono i più a rischio. Anche per le famiglie non è facile, per quelle numerose e quelle che non hanno spazi ampi o un giardino, in particolare le famiglie con disabili. Ho sentito racconti bellissimi di gestione del tempo: hanno fatto un lavoro stupendo gli insegnanti e i docenti, organizzando in remoto lezioni per i ragazzi, adolescenti e i giovani, favole raccontate per i piccoli. Persino c’è stata la preparazione dei Grest in teleconferenza. Forse molti hanno anche sperimentato che vivere rinchiusi in casa non è semplice: può smascherare la nostra aggressività, far emergere le nostre paure, insofferenze, spigolosità, l’incapacità a fare spazio all’altro.
Che cosa può aiutarci a superare la stretta dolorosa della paura e della solitudine? Ci vuole un cambio di passo. Bisogna scoprire possibilità diverse e modi differenti di vivere. V’è un’altra dimensione dell’uomo, che non è solo l’homo faber, che produce e capitalizza, oppure che consuma e si riempie di cose, ma c’è anche l’homo ludens, che gioca, canta, crea, dipinge, suona, scrive, racconta. Anzi, ancor meglio, l’uomo e la donna possono diventare homo religiosus, cioè uomo o donna che costruisce i legami buoni (dal verbo latino re-ligare), che sa ascoltare, parlare, dialogare, pensare, pregare, narrare, lodare, invocare, consolare, amare, sperare. Molti ci dicono che i sacrifici di questi giorni servono per far recedere la contaminazione del virus, per rispettare e favorire il lavoro dei medici e degli operatori sanitari. Questo è verissimo! Ma vorrei dirvi qualcosa di più: è un tempo favorevole per scoprire una dimensione che avevamo dimenticato, la vita insieme, la bellezza degli affetti e dei sentimenti, dell’ascolto e delle buone relazioni, del tempo regalato, della parola gratuita e consolante. Non è forse questa la sfida più intrigante di questi giorni?
Tanti preti, nelle zone più a rischio, hanno perso la vita per aver scelto di stare vicino ai cristiani delle loro comunità colpiti dal virus. Quale ruolo può avere la Chiesa in questi giorni difficili? La Chiesa in questo tempo deve far riscoprire una prossimità amica e una vicinanza che è favorita anche dai nuovi mezzi di comunicazione sociale. Molti preti hanno perso la loro vita, li onoriamo con grande affetto e tenerezza. Soprattutto nei primi tempi l’aggressività ancora sconosciuta del morbo non ha lasciato scampo. E in questo frangente qualcuno ha dato anche una testimonianza eroica: come quel prete di Bergamo che non ha voluto il respiratore regalato a lui, a favore di chi era più giovane… Ma il compito più grande della Chiesa è quello di sostenere la speranza. Non una speranza a buon prezzo, ma a caro prezzo!
Abbiamo fatto un’esperienza semplice in questa Quaresima: quattro settimane, tutte le sere, collegati in streaming, per quindici minuti di preghiera sulle letture della Parola di Dio del giorno. L’ascolto della Parola ha dato voce al nostro tormento, alle nostre domande, alle nostre ansie, alla nostra preghiera: talvolta bisognava difendersi dalla ricchezza inesauribile della sua Parola. E la gente è rimasta fedele all’appuntamento! Non possiamo interrogarci sul senso di questo momento, se non lasciamo parlare Dio nelle opere e nei giorni della vita quotidiana. Altrimenti Egli ci circonderà con un “silenzio assordante”. Il silenzio di Dio, quello vero, è lo spazio che gli facciamo ogni giorno per rendere la sua Parola presente alla nostra vita, senza addomesticarla. Parola di Dio, silenzio eloquente, fede orante: questa è la sfida e il dono di questi giorni. Provare per credere!
L’epidemia ha necessariamente cambiato anche le più normali modalità di vita della comunità cristiana, ha cancellato i suoi poli di aggregazione, a cominciare dalla celebrazione liturgica. Lei stesso si è trovato a dover celebrare la messa domenicale in una piccola cappella nella sua casa, raggiungendo la gente soltanto attraverso gli strumenti della tecnologia. Cosa insegna questa esperienza a lei e a tutta la chiesa? Pensa che, quando sarà possibile tornare a celebrare la messa, i fedeli avranno imparato ad apprezzarne il valore ? Oppure ci si sarà abituati a farne a meno?  Due cose abbiamo imparato. La prima è il grande bisogno di legami sociali. Le forme più elementari di aggregazione della vita comunitaria sono saltate. Ho sentito che a tutti – preti e laici – mancano molto la messa della domenica e anche le altre espressioni della vita comune: una domenica senza messa non ci fa vivere. È molto triste vedere il nostro bel Duomo vuoto. Forse abbiamo riscoperto la potenza del rito e del pregare insieme. Per alcuni è diventata persino una questione di principio: è una cosa comprensibile, anche se forse non hanno avvertito l’eccezionale gravità del momento, mai successo dalla seconda guerra mondiale. Purtroppo le cose essenziali della vita, come ad es. la salute, si comprendono quando mancano. È presto per dire che: «quando sarà possibile tornare a celebrare la messa, i fedeli avranno imparato ad apprezzarne il valore?».
Una seconda cosa abbiamo imparato: che non è possibile vivere senza esprimere e alimentare non solo i legami, ma anche i riti che li costruiscono. Basta riflettere su questo: alle Chiese vuote corrispondono anche le piazze deserte. Lo spazio sociale è diventato desolato. Così non potremmo continuare a vivere! Se rimanesse solo la possibilità di andare al Supermercato, là faremmo i riti che ci omologano, che ci fanno uno, nessuno, centomila, sulla Piazza e nella Chiesa, invece, si celebrano i riti che costruiscono la nostra identità e i nostri legami: l’Italia delle belle piazze e dei mille campanili!
La Pasqua è ormai imminente. E sarà una Pasqua “in quarantena”. Che significato ha la parola Resurrezione in questo tempo difficile? Che augurio vuole fare ai novaresi? Forse questa è stata la Quaresima più autentica che ho fatto nella mia vita! Certo questa del 2020 sarà la Pasqua che ricorderemo. La parola “risurrezione” avrà un sapore nuovo. Ma soprattutto vero: prima per quelli che ci hanno lasciato, poi per tutti quelli che hanno salvato migliaia di vite negli ospedali e nella condivisione della carità, poi per tutti noi se non avremo sciupato questo tempo. Per questo vi auguro: Buona Pasqua di risurrezione a vita nuova!