Il caso serio della nostra vita. Omelia per la 27ma domenica del tempo ordinario

Miei cari,
continuiamo con l’ennesima parabola che ha come immagine la vigna, rappresentazione che è citata tanto nella prima lettura, con il celebre canto a lei dedicato dalle Profezie di Isaia (Is 5,1-7), quanto nel Vangelo di Matteo (Mt 21,33-43), con la storia del rifiuto ostile della consegna del raccolto da parte dei viticoltori omicidi, racconti connotati entrambi da un aspetto drammatico. Da un lato, infatti, emerge la cura amorosa di Dio e il rigoglio delle coltivazioni che ne traggono beneficio («Canterò per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti; vi aveva costruito in mezzo una torre e scavato anche un tino» [Is 5,1-2]), dall’altro la devastazione e la sterilità non solo dei prodotti ma anche dal luogo stesso di produzione a causa dell’insipienza dell’uomo («Or dunque, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha fatto uva selvatica?» [Is 5,3-4]) . Da un lato la gioia del dono gratuito fatto dal Signore al suo Popolo, dall’altro le aspettative di Dio disattese e inevase dal comportamento sciagurato dei viticoltori, al punto che il racconto parabolico indica la loro tragica fine, voluta dal Padrone della vigna: «quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo»(Mt 21,41).
Osserviamo due elementi per la nostra riflessione.

“La santa paura”
Una nota di paura percorre, anzitutto, i due testi; uno vero sgomento, che ci lascia attoniti e basiti, e che è sottolineato dalle immagini forti usate sia dal profeta Isaia sia da Gesù. La devastazione dell’incuria che succede al rigoglio premuroso come profetizza Isaia, a causa dell’insipienza degli agricoltori: «toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia» (Is 5,5-6). Questa è unita alla descrizione del comportamento irriconoscente, che segue alle giuste richieste del padrone dei frutti sperati dai vitigni, come narra l’evangelista Matteo: «i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: Avranno rispetto per mio figlio! Ma, i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità! Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero» (Mt 21,35-39).
Parole gravi, volte ad indicare anzitutto che la nostra esistenza fin da quaggiù è il caso serio di cui occuparci al meglio delle nostre possibilità. Noi tutti, infatti, disponiamo di questa vita e non di un’altra. Questa esistenza ci è donata dall’amore di Dio, perché fruttifichi, ma può andare incontro ad un tragico fallimento, quando, con tanta superficialità, la lasciamo scorrere, convinti che sia solo a nostro uso e consumo, senza alcuna ricaduta né su noi stessi né sugli altri nè sull’intero creato. Le gravi diseguaglianze economiche fra i popoli e le società e la devastazione del patrimonio ecologico con le mutazioni repentine del pianeta confermano quanto effimeri siano i nostri prometeismi e le nostre presunzioni di dominare, di possedere e di stravolgere il sistema. A tutto questo si è aggiunta una pandemia che sembra non avere fine e provoca sentimenti di paura e di angoscia di fronte alla vita terrena, che appare per quello che è sempre stata: fragile ed esile.
Se questi due racconti della Scrittura hanno, dunque, l’effetto di incuterci un po’ di paura per la nostra vita, ebbene, questo timore dovrà essere considerato sano e benedetto, quando ci può aiutare a cambiare il nostro modo di vivere e, a partire dal nostro esempio, far interrogare anche quello degli altri. San Jose Maria Escriva de Balaguer affermava, infatti, che ogni conversione inizia con un po’ di paura, anche se poi essa non deve essere la nota dominante della vita cristiana, ma può costituire un buon inizio e una buona premessa per la presa di coscienza che la vita è un caso unico e serio.

L’esistenza come dono unico e irripetibile di Dio da far fruttificare
Se la vita è un caso serio, altrettanto lo è il dramma del fallimento dell’esistenza – una vite senza frutti – che, come dicevamo domenica scorsa, può essere interrotto, quando prendiamo coscienza che la nostra vita è un dono unico e irripetibile e che agli sbagli commessi possiamo far fronte, non solo assumendocene la responsabilità, ma riscattandoci e rialzandoci, riprendendo in mano l’esistenza con le sue potenzialità, mettendole a frutto e rispondendo con grave responsabilità di tutti i doni che ci sono stati fatti e partecipandoli agli altri.
È questa alla fine la logica da far nostra, dal momento che nessuno nasce con qualcosa tra le mani, ma tutto gli è donato, dall’inizio alla fine dell’esistenza, cosicché il dono stesso diventa la chiave per vivere. Un dono non subordinato ad alcunché, se non al dono stesso che, in quanto tale, rende ragione di se stesso. È la stessa logica di Dio, a cui immagine siamo plasmati. Dio, infatti, si dona creandoci e donandosi porta la vita. Abita l’universo dell’esistenza delle sue creature con l’amore e mediante esso le fa vivere. Questo atteggiamento di fondo non potrà che essere il contrassegno dominante delle Sue creature. Non può perciò prevalere l’atto del possesso di ciò che nostro non è. L’illusione dei contadini di spadroneggiare nella vigna del Padrone, con la foga insana di uccidere chi ne pretende giustamente i frutti sta lì a dimostrarlo. È Dio e solo Dio il padrone della messe, in quanto Creatore e Signore dell’universo creato. La Sua signoria è tale ed evidente che non ammette il contrario. Ma questa signoria non è un dominio tirannico, perché si basa sull’amore e sulla gratuità e l’amore gratuito che si dona non può che generare altro amore. Il desiderio sfrenato di possesso, al contrario, da parte dei vignaioli è stupido e inutile, perché rinchiude il dono stesso in un’illusoria ed effimera aura, che al primo imperversar dei venti, viene spazzata via, lasciando in chi l’ha usata per vivere un’amarezza tale da rendere asfittico il corso naturale della propria vita.

Rispondere alla vita con responsabilità
Così diviene chiara a tutti noi l’urgenza di rispondere con frutti di bene alla chiamata del Signore: non solo per diventare sua vigna ma per farne parte e lavorarci. Questo ci aiuta a capire che cosa c’è di nuovo e di originale nella fede cristiana. Essa non è tanto la somma di precetti e di norme morali da eseguire a bacchetta, ma è prima di tutto una proposta di amore che Dio, attraverso Gesù, ha fatto e continua a fare all’umanità. È un invito a entrare in questa storia di amore, diventando la vigna vivace e aperta, ricca di frutti e di speranza per tutti. Al contrario, la vigna chiusa può diventare selvatica e produrre solo uva selvatica.
Siamo chiamati, così, a coltivare la vigna e a produrre frutti, elargendoli senza grettezza alcuna, mettendo il tutto a servizio dei fratelli che non sono con noi, per scuoterci a vicenda e incoraggiarci, per ricordarci di dover essere vigna del Signore in ogni ambiente, anche quelli più lontani e disagevoli. Questo altro non è che vivere e rispondere  con responsabilità alla vita stessa.
Solo così mostreremo con la nostra stessa vita il dono di Dio, diventando a nostra volta dono per tutti coloro che sono chiamati alla festa di dio che è senza fine.
Buona domenica!
Padre Marco