La vera immagine di Dio. Omelia per la 32ma domenica del tempo ordinario

Miei cari,
proseguendo nella lettura del capitolo 25 dell’evangelo secondo Matteo, ascoltiamo in questa penultima domenica dell’anno liturgico, la seconda delle parabole, conosciuta come quella dei talenti (Mt 25,14-30), che ci descrive in modo figurato l’incontro finale col Signore.
Come domenica scorsa Gesù ci chiede di mutare la nostra prospettiva nei confronti di Dio non solo per non temerlo e non aver paura dell’appuntamento finale con Lui, ma piuttosto per andargli incontro, con la gioia, con la speranza, con l’amore, sentimenti tutti che abbiamo coltivato nel corso della nostra vita, uniti alle nostre opere buone, che troveranno la loro definitiva realizzazione nel momento, in cui il Crocifisso-Risorto tornerà «nella gloria a giudicare i vivi e i morti» e «il suo Regno non avrà fine» (Credo niceno-costantinopolitano). Tre osservazioni mi permetto di fare a questa pagina evangelica che abbiamo proclamato e che offrono una prospettiva con cui leggere questa singolare parabola, nella quale si narra di un uomo che prima di partire per un viaggio, consegna «ai suoi servi i suoi beni; a uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno» (Mt 25,14-15).

I talenti
La prima osservazione riguarda il dono dei beni in talenti.
Il talento corrispondeva a circa 33 kg di oro, una cifra considerevole, dunque, che viene offerta dall’uomo, seppur in misura diversa, a ciascuno dei suoi servi. Un primo punto che balza agli occhi è proprio questo: quell’uomo consegna fiduciosamente parte delle proprie sostanze. Ma questi talenti – è la seconda annotazione da fare – sono proprietà di quell’uomo, elargiti ai servi secondo le capacità di ciascuno, così che, fuor di metafora, i talenti non rappresentano affatto le qualità proprie di cui ciascun servo dispone, ma solo le sostanze del padrone. Un terzo appunto, ancora si può fare a questo riguardo. Se in quell’uomo che parte, come lascia intendere Gesù, vediamo la figura del Padre, i talenti sono costituiti fondamentalmente dell’amore di cui vive e che si manifesta nei misteri della nostra salvezza. Come scrive l’evangelista Giovanni: «Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio per noi: Dio ha mandato il suo unigenito Figlio nel mondo, perché noi avessimo la vita per lui. 10 In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,8-10).
Il Dono per eccellenza è, dunque, lo stesso Gesù, il Figlio amato, che «è nel seno del Padre» (Gv 1,18) dall’eternità e che «nella pienezza del tempo» (Gal 4,4), si incarna nel seno della Vergine, si fa uomo e fa dono di se stesso all’intera umanità perché essa si salvi. Infatti, come ricorda ancora l’apostolo Giovanni: «Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui» (Gv 3,17).
Gesù si offre volontariamente alla passione e alla morte di Croce, perché dal suo sacrificio scaturiscano «fiumi d’acqua viva» (Gv 7,38) che, inondando l’umanità intera, portano a compimento il disegno del Padre: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo: per grazia infatti siete stati salvati. Con lui ci ha anche risuscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù» (Ef 2,4-6).
Di più. Il Risorto, promettendo di rimanere «con noi sino alla fine del mondo» (Mt 28, 20), effonde lo Spirito Santo, «primo dono ai credenti» (Pregh. Euc. IV), sulla Chiesa nascente, perché essa continui l’opera di santificazione e redenzione, iniziata da Cristo.
Dalla Chiesa, «sacramento universale di salvezza» (Cat. Ch. Catt. 774) vengono irrorati i Sacramenti, «segni efficaci della grazia, istituiti da Cristo e affidati alla Chiesa, attraverso i quali ci viene elargita la vita divina» (Cat. Ch. Catt. 1131).
Animati, dunque, dalla vita di grazia noi stessi potremo così compiere il disegno di Dio in noi stessi e nell’umanità, «perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5,16). «Così la Chiesa risplende come segno della tua fedeltà all’alleanza promessa e attuata in Gesù Cristo, nostro Signore» (Pregh. Euc. Vd)

La misura differente del dono
La seconda osservazione riguarda la misura differente del dono.
Infatti, quell’uomo, partendo,  consegna «ai suoi servi i suoi beni; a uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno» (Mt 25,14-15). Non è questa una scelta di privilegio, ma è una distinzione che tiene conto delle capacità di ciascuno. È, dunque, una scelta equa, perché ciascuno, ricevendo quanto è capace di far fruttificare, possa essere all’altezza del dono. Non c’è una selezione di valore o di merito conquistato, ma appare una logica di estremo rispetto di ciascuna persona. Infatti, se tutti siamo stati a creati ad immagine e somiglianza di Dio, se tutti siamo figli dello stesso Padre celeste che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45), se tutti siamo di conseguenza fratelli e sorelle, tutti però disponiamo di capacità diverse di resa. Come dice l’apostolo Paolo: «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diversità di operazioni, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti. E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue. Ma tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole. Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo» (1Cor 12,4-12). Dio, dunque, rispetta le nostre diversità, le esalta e le fa diventare occasione per ciascuno di salvezza. Uguali, ma diversi, tutti però uniti in un’unica orchestra in cui ogni strumento – passi il paragone – suona la propria melodia che nell’insieme diventa una grande sinfonia, la più bella che possa risuonare, il cui eco si diffonde nell’intero universo. Ecco perché ciascuno pur diverso non è sminuito dalla differenza, ma esaltato in essa: perché diventi gloria di Dio, che tutti ama allo stesso modo e nella stessa misura. Nessuno perciò è meno di un altro, ma è – usiamo ancora un’immagine – al pari di un prisma, in cui la stessa luce assume diversi colori. Non è forse un richiamo al dono della Pentecoste quando, pur nelle diverse lingue e culture, tutti si comprendono ma non si dividono?

Il vero volto del padrone
Si comprende infine la terza e ultima annotazione che voglio fare e che riguarda il vero volto del Padre Celeste
Dobbiamo notare questo: l’ultimo dei servi si figura Dio come un Padre-padrone. Lo dice chiaramente, senza che nella parabola non ci sia nulla che lo lasci credere: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (Mt 25,24-25). Eppure – lo si sottolinea ancora – il Padrone della parabola non si è mai presentato così. Tanto più che ha dato gratuitamente le sue sostanze perché ciascuno ne potesse disporre a suo modo e a sua misura, ma non ha posto nel consegnarle alcuna condizione. È solo quel servo che se le immagina. Che cosa, allora, non va nel terzo servo? Non la misura del dono di cui è fatto partecipe, ma l’immagine che si è costruita di Dio come Padre-Padrone. E ciò a suo totale e completo suo svantaggio che lo porta all’autodistruzione. Non è forse questo servo l’immagine del primo uomo tentato dal serpente infernale, che lo invita a non fidarsi di Dio? Rileggiamo il passo: «Ma il serpente disse alla donna: Non morirete affatto! Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male» (Gen 3,4-5). Non è forse il prototipo della stessa e identica tentazione ricorrente in tutta la storia nella quale Dio appare come l’avversario con cui confrontarsi e del quale avere paura? Ecco l’eterno inganno da vincere dentro di noi e nel quale non lasciarci avviluppare dalle spire del Serpente infernale. Solo costui è l’autore del male: è il diavolo, il sobillatore. Solo costui, pur avendo avuto piena coscienza della natura di Dio, non si è mai rassegnato né mai si rassegnerà, continuando ad accusare la generazione dei figli di Dio: è il Satana infatti, l’accusatore. Da lui ci si deve guardare e non da Dio. Non è forse vero che il progetto originario di Dio era differente? Infatti, il salmo 8 lo proclama, o meglio, lo canta: «O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza. Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli. Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi? Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato: gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi; tutti i greggi e gli armenti, tutte le bestie della campagna; Gli uccelli del cielo e i pesci del mare, che percorrono le vie del mare».

Conclusione
Questa parabola ci fa capire quanto è importante avere un’idea vera di Dio. Non dobbiamo pensare che Egli sia un padrone cattivo, duro e severo che vuole punirci. Se dentro di noi c’è questa immagine sbagliata di Dio, allora la nostra vita non potrà essere feconda, perché vivremo nella paura e questa non ci condurrà a nulla di costruttivo, anzi, la paura ci paralizza, ci autodistrugge. Gesù ci ha sempre mostrato che Dio non è un padrone severo e intollerante, ma un padre pieno di amore, di tenerezza, un padre pieno di bontà. Pertanto possiamo e dobbiamo avere un’immensa fiducia in Lui. Gesù ci mostra la generosità e la premura del Padre in tanti modi: con la sua parola, con i suoi gesti, con la sua accoglienza verso tutti, specialmente verso i peccatori, i piccoli e i poveri, ma anche con i suoi ammonimenti, che rivelano il suo interesse perché noi non sprechiamo inutilmente la nostra vita. È segno infatti che Dio ha grande stima di noi: questa consapevolezza ci aiuta ad essere persone responsabili in ogni nostra azione. Pertanto, la parabola dei talenti ci richiama a una responsabilità personale e a una fedeltà che diventa anche capacità di rimetterci continuamente in cammino su strade nuove, senza sotterrare il talento, di cui ci chiederà conto.
Buona domenica!
Padre Marco