La purificazione del cuore dell’uomo. Omelia per la terza domenica di Quaresima

Miei cari,
all’evangelista Marco in questo tempo penitenziale succede l’evangelista Giovanni, che occuperà le tre domeniche di quaresima restanti. Il brano odierno (Gv 2,13-25), appena proclamato,  potrebbe avere come titolo indicativo “la purificazione del cuore dell’uomo” da tutto ciò che non instaura una corretta relazione con Dio. Lo si comprende da un versetto, che passa inosservato, ma che può costituire, a buon diritto, la chiave per entrare nel significato profondo del passo che oggi la Chiesa proclama: «Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,25), preceduto da un’espressione rivelativa della sapienza del Signore, rispetto all’apparenza degli uomini: «molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo» (Gv 2,23-25). Dunque, proviamo a decifrare il brano a partire da alcune elementi che ci permetteranno di chiarire il tema enunciato.

Il tempo dell’azione di Gesù: la Pasqua
A differenza degli altri evangelisti che riportano questo brano al termine della missione di Gesù e che costituisce una delle cause della sua condanna a morte, Giovanni pone il passo all’inizio del ministero pubblico di Gesù, al capitolo secondo e dopo il miracolo della mutazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana (Gv 2,1-12). Sullo sfondo di entrambi i fatti narrati c’è il mistero pasquale.
Infatti, a Cana di Galilea esso è rappresentato dal momento in cui avviene questo miracolo, «il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea» (Gv 2,1), che nella tradizione cristiana corrisponderà alla domenica, il dies dominicum, il giorno della Resurrezione di Cristo.
Giovanni, al contrario, esplicita chiaramente questo momento indicando quanto Gesù compie nel tempio proprio durante la festa Pasqua, come scrive all’inizio («Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme» Gv 2,13), alla conclusione («Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa» Gv 2,23) e nel mezzo («Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» Gv 2,19 e «Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù» Gv 2,22) del testo proclamato oggi.
Dunque, siamo fin da ora coinvolti pienamente nel mistero fondamentale della nostra fede, la Passione-Morte-Resurrezione di Cristo e, tutto quanto avviene, va letto in questa luce pasquale, cioè di passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla grazia.

Il luogo dell’azione di Gesù: il Tempio di Gerusalemme
Un secondo elemento è costituito dal luogo, anzi dai luoghi: la città santa di Gerusalemme e il suo centro, costituito dal Tempio.
La città è lo spazio in cui avviene non solo il fatto narrato oggi ma gli eventi che segneranno la vita di Gesù, rivelandolo, senza alcun dubbio, quale Messia e Salvatore. Infatti, entrandovi come Unto del Signore sul dorso di un asino, quale re di pace, e con le acclamazioni e le gestualità riservate al Messia Gesù mostra chiaramente la natura del suo ministero (Gv 12,12-50); consegnandosi volontariamente alla passione, sarà innalzato sulla croce (Gv 19,16-37) e, ucciso durante l’immolazione degli agnelli (Gv 19,31), si mostrerà quale Vero Agnello che ha tolto il peccato del Mondo (Gv 1,35), creando così la Nuova Alleanza nel suo Sangue; risorgendo il terzo giorno (Gv 20,1-18) ed effondendo lo Spirito (Gv 20,19-29), inaugurerà definitivamente il Regno di Dio e il tempo della Chiesa, sua sposa (Gv 21,15-25).
Ma nella città santa c’è uno spazio ancora più santo in cui vi è la presenza del Dio dell’Alleanza con Israele: il Tempio. Esso è unico, perché unico è Dio. Esso è santo, perché ivi sono poste, nella parte più intima, le Tavole della Prima Alleanza (1 Re 8,9; 2 Cr 5,2-10), stipulata da Dio con Mosè sul Sinai e graffite dal dito di Dio (Dt 10,1-5), custodite nell’Arca, il contenitore di acacia rivestito completamente di oro, chiuso da un coperchio in oro sul quale erano posti a custodia i cherubini (Es 25,10-22). L’Arca era posta nel cuore del Tempio, il Debir, il Sancta Sanctorum (1Re 8,1-9), separato  per mezzo di una tenda, il parochet (che si squarcerà in due alla morte di Gesù), e accessibile solo una volta all’anno, durante la ricorrenza dello Yom Kippur, dal Sommo Sacerdote, che offriva il sacrificio di espiazione. All’esterno i fedeli si distribuivano in una serie di cortili, separati, ma posti in relazione l’un con l’altro, ove non solo si svolgevano le attività legate al culto, ma si distribuivano le oblazioni fornite ai pellegrini a questo scopo come il cambio delle monete (infatti su quelle romane era impresso il volto dell’imperatore, cosa contraria alle leggi d’Israele che vietavano le immagini) per la vendita delle varie offerte da immolare al Signore.

L’azione di Gesù: dall’apparenza alla profondità
Se questi sono il tempo e il contesto, vediamo l’azione che Gesù compie. Scrive l’evangelista Giovanni: «Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato! I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà» (Gv 2,15-17).
Chiariamo fin da subito che l’azione di Gesù non è mossa da alcun sentimento di ira, ma bensì di zelo, «come i suoi discepoli ricordarono»; poi, che questo suo gesto è premeditato: egli entra e nel tempio fa «un frusta di cordicelle», una sorta di aspersorio diremmo oggi, prima di agire, e solo dopo procede nell’atto di purificazione dell’esterno del tempio, cacciando «fuori tutti», uomini e animali, gettando quindi a terra quanto presente. Non è un atto contro l’uomo, ma a favore dell’uomo, perché egli comprenda che cosa c’è in gioco.
Coloro che dovrebbero saperlo, i Giudei in questo caso, sembrano o fanno finta di non comprendere, domandandogli infatti: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?» (Gv 2,18) ed inizia così un dialogo, in cui i Giudei appaiono sordi e ciechi, di fronte all’azione di Dio. L’evangelista lo rileva nella risposta di Gesù («Rispose loro Gesù: Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» Gv 2,19), nella replica dei Giudei («Gli dissero allora i Giudei: Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?» Gv 2,20 ) e nella successiva controreplica di Gesù («Ma egli parlava del tempio del suo corpo» Gv 2,21).
Solo il discepolo, iniziato al mistero pasquale, può passare, infatti, da un mero piano superficiale a quello più profondo («Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù» Gv 2,22). Tanto che Gesù, rincara la dose, ribadendo le parole che ci siamo posti come chiave di lettura all’inizio del brano: «Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,25), poichè «molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo» (Gv 2,23-25).

Il fine dell’azione di Gesù: la purificazione del cuore
Se avete avuto la pazienza di seguirmi fin qui, comprenderete che ciò che Gesù compie è la purificazione non del tempio ma del cuore dell’uomo.
Non solo perché l’evangelista ci obbliga a passare da un mero piano materiale degli eventi ad uno più profondo dei sentimenti che li muovono; ma perché, se il Tempio di Gerusalemme custodiva le Tavole di pietra della Prima Alleanza mosaica, le parole ivi incise dal dito di Dio, come più volte richiamato dai profeti, andavano impresse nel cuore degli uomini più che in un monumentale edificio. Per tutte valgano le parole di Ezechiele, che cantiamo spesso in Quaresima: «vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio» (Ez 36,26-28).
Queste leggi, che chiamiamo Dieci Comandamenti e che abbiamo risentite oggi nella prima lettura, ci indicano la strada della vita che inizia con una relazione purificata tra Dio e l’uomo, tra l’Amante e la creatura amata, tra un padre/madre e un figlio.
Una relazione e non una sottomissione. Dio, quando rivela quelli che chiamiamo  impropriamente Comandamenti, non consegna all’uomo degli ordini, ma entra in dialogo con lui. Infatti, la Scrittura ebraica dice così: «Dio pronunciò tutte queste parole» (Es 20,1). Dunque, non comandamenti, ma piuttosto parole. Non è una sottigliezza linguistica, ma è la manifestazione chiara dell’intento con il quale Dio si rivolge alla sua amata creatura, l’uomo. La parola, infatti, per sua natura, implica il dialogo e il dialogo, per sua stessa indole, consegna termini puntuali entro i quali svolgerlo, quindi due persone alla pari (!) che tra loro instaurano un’amicizia che va sviluppandosi progressivamente nella conoscenza, nella verità, nel rispetto reciproco.
Quella di Dio diventa, dunque, una pedagogia, una maieutica, tendente non ad opprimere l’uomo, ma a consegnarlo costantemente alla vita, facendo emergere la verità di se stesso, in una misura sempre crescente e sempre maggiore fino a portarlo alla pienezza. Ecco perché nel gesto compiuto da Gesù vediamo non la purificazione di un edificio materiale ma piuttosto la purificazione del cuore dell’uomo da tutto ciò che non costituisce e non porta i segni della relazione filiale con Dio. Come il Tempio conteneva le tavole delle Dieci Parole, così il cuore dell’uomo andava e va sempre liberato dall’inganno, cioè da tutto ciò che non restituisce la verità del suo rapporto di fede-fiducia con Dio. Se Dio si rivela come Padre all’uomo che lo cerca con cuore sincero, dal cuore dell’uomo va tolto tutto quello che impedisce questa relazione di tenerezza e di figliolanza. Chi può operare questo passaggio – o meglio – questa Pasqua, come è il significato della parola, è solo il Figlio amato in cui il Padre ha posto il suo compiacimento (cfr. Lc 3,22). Gesù stesso, nel mistero della Pasqua, diventa così lui rinnovato tempio, da cui scaturisce la vita eterna che purifica l’uomo in ogni sua relazione e gli consegna la verità di se stesso. Infatti come si è detto all’inizio: «Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,25); solo Dio lo può fare, poiché «L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore» (1Sam 16,7)
Buona Domenica!
Padre Marco